A questo punto è opportuno introdurre una prima variabile interculturale: la dicotomia universalismo/particolarismo. Nel nostro metodo contrastivo, definiamo universalistiche le culture o religioni che possono estendersi di là delle barriere geografiche, etniche, linguistiche. Universalistici sono il cristianesimo, l’islam, il buddhismo, per cui tutti possono diventare cristiani, islamici, buddhisti. Universalistico si considera in genere l’occidente, e universalistica è la Cina: come sappiamo, i mongoli e i mancesi si sono sinizzati e addirittura hanno fondato dinastie imperiali cinesi.

Definiamo invece culture o religioni particolaristiche quelle legate a un determinato popolo o a un determinato territorio, i cui valori non sono estendibili universalmente. Particolaristico è, per esempio, l’ebraismo legato a un “popolo eletto”, come pure particolaristica è la cultura giapponese che, pur essendo una variante all’interno del mondo confuciano, è legata alla sacralità del territorio insulare considerato dai giapponesi «il paese degli Dei», Kami No Kuni (divinità rigorosamente giapponesi, naturalmente).

Quindi, sia la Cina sia l’occidente sono modelli universalistici, ma con una differenza sostanziale. L’universalismo occidentale nell’accezione comune è hard, avendo valori non solo estendibili a tutto il mondo ma anche assoluti: il Bene, la Libertà. la Democrazia, i Diritti Umani, tutti scritti con la lettera maiuscola, in nome dei quali si fanno crociate e guerre addirittura preventive. L’universalismo cinese è soft perché basato su valori relativi validi case by case, cioè sulla base delle concrete specifiche situazioni, come illustreremo successivamente comparando l’etica dei due modelli.

Uinversalismo sinico

Comprensibilmente, un universalismo soft e pragmatico come quello cinese riduce di molto la spinta verso politiche e atteggiamenti conflittuali, come del resto è prospettato nel celebre trattato L’arte della guerra attribuito al generale Sun Tzu, vissuto tra il VI e il V secolo a.C (…)

Nel corso del primo decennio di questo secolo, gli studiosi cinesi hanno prospettato vari modelli di universalismo sinico. Il più interessante è quello proposto da Zhao Tingyang, uno dei maggiori filosofi cinesi contemporanei, noto come “sistema tianxia”, con cui si cerca di adattare (o, più correttamente, attualizzare) la tradizionale nozione confuciana di tianxia al mondo globalizzato di oggi con l’obiettivo di favorire la creazione di un mondo più armonico.

Zhao parte dall’assunto che il mondo di oggi, risultato di secoli di egemonia occidentale, è un non-mondo, costituito da stati-nazione sovrani che sono incapaci di cooperare realmente essendo portatori degli egoismi nazionali, spesso in contrasto con quelli collettivi e globali. Utilizzando la tradizionale nozione di tianxia, egli prospetta una cultura politica che sviluppi solidarietà e cooperazione tra i popoli, premessa per la creazione di un «governo sovranazionale» che però salvaguardi le specificità delle economie e dei valori specifici dei singoli popoli. (…)

Dal punto di vista sistemico, elemento essenziale della tesi di Zhao è la globalità, con il superamento del carattere internazionale (nell’accezione di “interstatale”) e con la conseguente trasformazione di istituzioni come per esempio l’Onu, i cui membri sono gli stati, in istituzioni globali/sovranazionali.

Si tratta di un’affascinante prospettiva sovranazionale che in qualche modo richiama sia la nostra terza scala geopolitica (la dimensione globale-transnazionale) sia il cosmopolitismo della «costellazione postnazionale» teorizzato da Jürgen Habermas. Coerentemente con il monismo organicistico della tradizionale ontologia cinese (contrapposto al dualismo del pensiero occidentale), Zhao sostiene che il tianxia può svilupparsi solo organicisticamente e non attraverso l’uso della forza, per cui questo modello sarebbe superiore alle tre esperienze della storia mondiale che sembrerebbero, sempre secondo Zhao, più vicine al sistema del tianxia. Quest’ultimo sarebbe superiore all’ideale dell’Impero romano, che puntava sulla conquista militare. Per i romani lo scopo della guerra era pacem dare: pacificare il mondo era la missione che il fato aveva assegnato a Roma, ma per assolverla i romani imponevano la legge romana manu militari.

Anche l’universalismo cristiano è considerato da Zhao insoddisfacente perché cerca di risolvere i problemi politici con una religione che peraltro – come spesso amano rilevare gli studiosi confuciani – ha come uno dei suoi assunti la lotta mortale tra il bene e il male, tra l’arcangelo Michele e Lucifero. Sempre secondo Zhao, la stessa tesi di Kant della «pace perpetua» di fatto avrebbe favorito non tanto la pace quanto l’affermarsi dell’imperialismo culturale dell’occidente. In conclusione, il tianxia sarebbe il miglior progetto per la futura politica mondiale.

A nostro parere, con questa nuova forma di neo-confucianesimo (qualificato negativamente dagli oppositori come «confucianesimo politico»), Zhao, riprendendo elementi della tradizionale politologia cinese liberamente attualizzati, ha creato un’interessante utopia per immaginare una pax sinica. Come ha commentato Zhang Feng della Tsinghua University di Pechino, egli ha omesso una cosa fondamentale: «Indicare una via effettivamente percorribile per connettere il passato [cinese] e il futuro [mondiale]». (…)

Divario atlantico

Spostando la nostra attenzione all’occidente, un dato ormai largamente acquisito è che l’Europa occidentale e gli Stati Uniti d’America si stanno lentamente allontanando non solo geologicamente, come ha puntualizzato in una recente nota l’Ansa riprendendo uno studio pubblicato su Nature, ma anche geoculturalmente, e non semplicemente nei termini di universalismo hard/soft sopra esaminato.

Con il consolidarsi della struttura multicentrica del sistema globale dopo la fine del bipolarismo, e parallelamente al processo di affrancamento (invero troppo lento e come ben sappiamo molto accidentato con improvvisi arresti o addirittura con arretramenti) dalla tutela americana da parte dell’Europa, che peraltro era stata essenziale durante il bipolarismo, come già evidenziato è cresciuto il divide atlantico, cioè le diversità che separano Stati Uniti ed Europa. Naturalmente entrambi conservano la stessa matrice occidentale; in concreto, il divario riguarda soprattutto interessi geopolitici che oggettivamente sono diversi, e non tanto i valori condivisi quanto la differente priorità che viene data a essi dagli Stati Uniti e dall’Europa.

Il divario è evidente nella maggiore sensibilità degli europei per i diritti sociali e per il welfare, come pure nella maggiore attenzione per i problemi connessi con l’ambiente e, aspetto particolarmente rilevante dal punto di vista geopolitico, nella gestione della diversità culturale. Va precisato con chiarezza che, di per sé, il divide atlantico non implica contrapposizione geopolitica tra Europa e Stati Uniti. Esso è frutto di storie, tradizioni, situazioni oggettive nonché di autorappresentazioni geopolitiche del tutto diverse. Henry Kissinger, con la concretezza del suo realismo, qualifica gli effetti del divide atlantico come normali «malintesi», ovvero differenze di percezione tra paesi atlantici che condividono la democrazia rappresentativa, le libertà dell’individuo e l’indipendenza della magistratura. E non manca chi vede il divide atlantico come un arricchimento in termini di diversità nell’ambito della stessa civiltà occidentale che, come le altre grandi civiltà, pur avendo al suo interno varianti rimane nell’insieme ben definita.

Il problema è come concretamente questi malintesi vengono gestiti. In effetti, dopo la fine del bipolarismo il divario atlantico preoccupa proprio per la diversa gestione della politica internazionale. Preoccupa soprattutto l’atteggiamento nei confronti del multilateralismo, che in questa fase è conditio sine qua non per la creazione di un ordine globale nuovo, più cooperativo: in breve, è indispensabile per dare una bussola ai centri geoculturali in cui è frantumato il mondo.

Come scrive il politologo francese Pascal Boniface, il multilateralismo «è un elemento cruciale del dna europeo. La costruzione europea stessa è il frutto del multilateralismo e le due guerre mondiali hanno immunizzato i paesi europei dallo spirito imperialistico e dalla volontà di regolare troppo rapidamente con la forza i problemi politici». All’opposto, negli Stati Uniti l’unilateralismo, prescindendo dalle contorsioni contingenti, ha le sue profonde radici nell’«eccezionalismo americano» già contenuto in germe nel celebre Discorso di commiato (farewell address) scritto dal presidente George Washington alla fine del suo secondo mandato presidenziale (1796), e ancora oggi considerato un punto fermo nella politica estera degli Stati Uniti. Nel corso dell’Ottocento, l’eccezionalismo avrebbe indossato le vesti più aggressive della dottrina del «destino manifesto», il mito della «città sulla collina» che illumina il mondo.

Nel suo discorso, Washington raccomandava di evitare le alleanze permanenti con nazioni straniere, in particolare di tenersi lontani delle beghe europee. In effetti, gli Stati Uniti non hanno stretto alleanze militari permanenti fino al 1949, quando è stata creata la Nato, condizione considerata necessaria (insieme al Trattato di mutua cooperazione e sicurezza nippo-americano) per controllare l’Eurasia, in particolare contenendo l’Unione sovietica, e così evitare la marginalità geopolitica degli Stati Uniti verso cui la geografia li avrebbe sospinti.

Predominio americano

L’atteggiamento di Washington nei confronti del multilateralismo è ben illustrato dalla seguente dichiarazione di Madeleine Albright, segretaria di stato durante il secondo mandato presidenziale di Bill Clinton (1997-2001), peraltro considerata in patria una multilateralista: «Noi americani siamo multilateralisti se possiamo, ma unilateralisti se dobbiamo».

Una riprova lampante di ciò si è avuto con la recente firma del già citato patto di sicurezza trilaterale Aukus – stretto con Regno Unito e Australia senza nemmeno informare gli alleati della Nato – di cui poi il presidente Biden nel corso del G20 di Roma (ottobre 2021) s’è dovuto scusare dicendo che effettivamente gli Stati Uniti in tale occasione si sono comportati in «modo goffo».

Indubbiamente, l’atteggiamento americano in relazione al multilateralismo è ambiguo, e soprattutto pericoloso in questa fase in cui i centri geopolitici navigano a vista. (…) Più in generale, nel valutare la politica estera di Washington, è utile tener presente la seguente riflessione in merito alla mitologia politica americana fatta da Hubert Védrine, già ministro degli Esteri francese: «La maggior parte dei dirigenti e pensatori statunitensi non ha mai dubitato che gli Stati Uniti siano stati scelti dalla Provvidenza coma nazione indispensabile per eccellenza, e che essa debba rimanere dominante per il bene dell’umanità». Se ne deduce che il biglietto d’ingresso «nella famiglia mondiale delle nazioni è costituito dall’accettazione di questa egemonia mondiale degli Stati Uniti».

La questione assume un diverso grado di drammaticità a seconda della scelta strategica che di volta in volta Washington adotta per cercare di realizzare questo predominio continuo. Tornando al nostro tema principale, quel che va sottolineato è che l’inizio del divide tra le due sponde dell’Atlantico, in relazione ai temi della politica corrente, è di gran lunga precedente allo scompiglio trumpiano. In buona parte è frutto della mitologia politica americana «America first!», che non è un’invenzione di Trump ma una specie di filo rosso che attraversa la storia statunitense, con la vistosa eccezione della Guerra fredda.

Mutamento strategico

In particolare, la politica di contenimento della Cina post-bipolare è iniziata con l’amministrazione Obama, con la sua strategia nota come «pivot to Asia», che spostava dal medio oriente all’area Asia-Pacifico il perno geostrategico americano in funzione anticinese. La svolta strategica verso l’Asia è chiaramente delineata in un articolo dal titolo America’s Pacific Century, pubblicato nell’autunno del 2011 da Hillary Clinton, allora segretaria di stato, in cui, tra l’altro, si esplicitava che questo riorientamento della politica estera americana era fatto con l’obiettivo di «assicurare e mantenere il predominio mondiale degli Stati Uniti».

Questa strategia, ben presto ridotta a un più leggero bilanciamento a causa delle primavere arabe e della crisi siro-irakena, ma oggi notevolmente appesantito da Joe Biden, è considerata da alcuni analisti anche americani un errore perché, riducendo il peso strategico statunitense nei teatri europeo e mediorientale, e aumentandolo nell’Asia-Pacifico, non solo ha aggravato le tensioni in estremo oriente, ma ha anche creato un pericoloso vuoto di potere nel Mediterraneo e dintorni. È appena il caso d’aggiungere che tale mutamento strategico riflette le nuove priorità nella politica estera di Washington. Da parte cinese, la politica pivot to Asia è vista come un tentativo di Washington di tornare agli anni Cinquanta del secolo scorso creando «un cerchio di contenimento intorno alla Cina».

Secolarizzazioni

Sulle origini culturali del divide atlantico esiste un’ampia e ben nota letteratura. Secondo Louis Balthazar, un politologo canadese specializzato in studi nord-americani, alla sua base vi sono elementi fondanti del «carattere nazionale» degli Stati Uniti, che egli suddivide in fattori storici, condizionamenti politici e tendenze profonde. (…)

Com’è noto, la secolarizzazione, che a differenza della laicità riguarda non tanto l’aspetto politico-istituzionale quanto l’ambito socioculturale e che afferisce alla sfera dei comportamenti individuali e collettivi, è un processo essenziale della modernità ed è stato messo in moto dall’Illuminismo europeo. Oggi questo processo ha una triplice valenza semantica, indicando rispettivamente la separazione tra chiesa e stato, il declino della pratica religiosa nella vita sociale e infine la diminuzione della fede nella sfera privata. Questo fenomeno è ormai ben diffuso e accettato in Europa, anche se non mancano tentativi di resistenza da parte di una minoranza che vi vede un processo non di emancipazione ma di degenerazione, che condurrebbe al nichilismo attraverso la desacralizzazione. La secolarizzazione in quest’accezione stenta ad affermarsi negli Stati Uniti, dove anzi la religiosità si va rafforzando per quanto riguarda sia il numero di praticanti sia l’influenza politica.

Noi riteniamo che la secolarizzazione sia un fenomeno distintivo europeo, che pertanto ai fini della nostra analisi richiede un’approfondita riflessione. La secolarizzazione è iniziata con la Riforma protestante, che spaccò l’Europa in due orizzonti religiosi diversi: per Lutero la chiesa di Roma era la negazione del messaggio cristiano delle origini. La più efficace risposta elaborata dalla chiesa a questa sfida è stata la predicazione e la cultura elaborate dai gesuiti, tra l’altro aggirando la dicotomia che i protestanti avevano tracciato tra individuo e comunità, tra fede e rituale.

La Riforma, a differenza dei tanti movimenti eretici medievali, ha avuto l’appoggio politico ed economico di molti principi che hanno fatto del loro credo la religione di stato e fu alle origini delle sanguinose e lunghe guerre di religione che, intrecciatesi con altre questioni soprattutto dinastiche, per più d’un secolo hanno provocato una devastante e continua situazione di guerra civile fra i cristiani europei.

Il problema geopolitico era quello di neutralizzare la religione in quanto fattore conflittuale. La risposta, istituzionalizzata a Vestfalia nel 1648, è stata la riduzione del ruolo della religione con il trasferimento della legittimità del potere dalla chiesa (dal papa) allo stato, segnando così la fine anche formale della Res Publica christiana e la nascita dello stato moderno.

In effetti, la nascita dello stato moderno è avvenuta proprio quando ha assunto la funzione di determinare i confini religiosi, secondo il principio del cuius regio eius (et) religio («di chi [è] il regno, di lui [sia] la religione»). In altre parole, i sudditi dovevano seguire la religione del proprio governante: in questo modo, i confini politici del regno diventavano anche i confini religiosi.  (…)

Naturalmente, niente di tutto questo riguardava la Cina, in quanto – detto chiaro e tondo – data la mancanza di una netta separazione tra la dimensione religiosa e quella secolare, c’era poco da secolarizzare e disincantare. In realtà, la Cina aveva da tempo realizzato un altro tipo di secolarizzazione, ma non memo importante: nientemeno la «smilitarizzzazione della mente» . A partire dall’XI secolo la Cina, ai valori militari (wu 武) propri dell’aristrocazia fino ad allora dominanti, cominciò a preferire i valori burocratici o civili in senso lato (wen 文), imboccando la via della proto-modernità proprio mentre il Giappone, al contrario, si samuraizzava.  


Il testo in queste pagine è un estratto dall’ultimo libro di Franco Mazzei, pubblicato postumo per Egea, dal titolo L’insospettabile convergenza. Perché Europa e Cina si stanno avvicinando più di quanto non sembri (2022).

© Riproduzione riservata