Al Senato americano, dopo tanti mesi di negoziato sul maxi pacchetto di aiuti militari destinati all’Ucraina, a Israele e ad altri alleati statunitensi nell’area dell’Indo-Pacifico, si è deciso di scorporare la parte riguardante la sicurezza del confine con il Messico.

I due leader il democratico Chuck Schumer e il repubblicano Mitch McConnell hanno negoziato in fretta un provvedimento di soli finanziamenti esteri, da far procedere speditamente. E dopo diversi passaggi procedurali, il testo è stato approvato con 70 voti favorevoli e 29 contrari. Tra i sì anche 22 repubblicani, un mix di moderati, vecchi falchi e il gruppo comandato da McConnell. Tra i contrari trumpiani scalmanati di vecchia data, come Ted Cruz e J.D. Vance, insieme a neoconvertiti al verbo del tycoon, come il numero tre del gruppo, il senatore del Wyoming John Barrasso, e persino tre progressisti, tra i quali spicca Bernie Sanders.

Ora la palla passa alla Camera. E qui iniziano i problemi. Perché non si sa ancora cosa deciderà lo speaker Mike Johnson. L’esponente repubblicano, in carica dallo scorso novembre dopo una fase turbolenta che ha portato alla sfiducia del suo predecessore, Kevin McCarthy, finora ha cercato di combinare con un certo successo un elevato standing di decoro istituzionale con una fedeltà quasi assoluta ai dettami di Trump.

Adesso però è a un bivio: fare il proprio dovere e calendarizzare la discussione sul pacchetto di aiuti chiesto dal presidente Joe Biden lo scorso novembre, oppure semplicemente ignorarlo. Nel tardo pomeriggio di lunedì Johnson ha diffuso un comunicato dove si afferma che «prima di mandare dei finanziamenti per la sicurezza all’estero, bisogna mettere in sicurezza il confine».

«Quindi – ha aggiunto – in assenza di provvedimenti su questo tema provenienti dal Senato, la Camera lavorerà sul tema da sola. L’America merita di più dello status quo del Senato».

La strategia della petizione

Nonostante quella che sembra più di una strizzata d’occhio all’ala trumpiana del Freedom Caucus, non è escluso che in futuro arrivi un’apertura, cosa assai improbabile nell’immediato. Il leader della minoranza dem, Hakeem Jeffries, ha detto che il suo gruppo «intende provare di tutto per portare in discussione» il testo.

E in quel «di tutto» rientra anche una strategia raramente usata: quella della petizione. Infatti, qualora si riescano a raggiungere 218 firme, l’assemblea è obbligata a prendere in esame il testo. I dem sono 212 e qualora l’ex deputato Tom Suozzi venisse eletto alle suppletive del terzo distretto di New York, dove si è votato martedì, il pallottoliere arriverebbe a 213. A quel punto servirebbero soltanto cinque repubblicani.

In passato una strategia del genere difficilmente ha funzionato. Ma adesso ci sono diversi esponenti conservatori che già hanno annunciato il loro ritiro, in polemica con la svolta trumpiana del partito, tra cui il deputato del Wisconsin Mike Gallagher, molto attivo nel denunciare l’influenza cinese sull’opinione pubblica americana, e il conservatore Ken Buck, che da diversi mesi è entrato in diretta polemica con l’ex presidente.

Ne mancherebbero ancora, ma forse stavolta potrebbero esserci. Perché, come ha spiegato Thom Tillis del North Carolina, un senatore né particolarmente scalmanato né centrista, «in gioco c’è la sicurezza nazionale» e la capacità dell’America di esprimere leadership.

Se molti deputati difficilmente si uniranno agli avversari temendo per il proprio futuro politico, è invece evidente che lo speaker Johnson sta agendo come temevano alcuni suoi detrattori. Nonostante i modi educati e affabili lo nascondano bene, si sta caratterizzando come il principale alleato di Donald Trump al Congresso.

L’ex presidente sull’Ucraina ha altre idee. Avrebbe voluto bloccare gli aiuti sin dal primo giorno ed è forse anche per questo che un suo alleato come il senatore Vance dell’Ohio sta diffondendo un appunto dove, secondo una logica fumosa, Trump subirebbe un’impeachment qualora ritirasse gli aiuti promessi unilateralmente una volta entrato in carica.

Un’opzione che spaventa molto l’attuale inquilino della Casa Bianca, che a questo punto deve sperare che funzioni ancora quel sottile legame con la residua parte istituzionale del partito repubblicano insieme alla quale ha gestito le questioni di politica estera per oltre tre anni.

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