In quest’ultimo anno di mandato per il presidente americano Joe Biden ci sono pochi provvedimenti legislativi che ci si aspetta possano passare il vaglio di un Congresso spaccato in due tra un Senato a maggioranza democratica e una Camera dove il controllo è in mano ai repubblicani. C’è però un finanziamento extra, rimasto appeso dallo scorso ottobre, di 106 miliardi di dollari, destinato ad aiutare militarmente l’Ucraina, Israele e Taiwan e a rafforza la sicurezza del confine con il Messico.

Anche se c’è un team di negoziatori bipartisan, guidato dal senatore repubblicano James Lankford insieme al collega dem Chris Murphy, tutti gli occhi degli osservatori sono sull’unico uomo che può smuovere le acque da parte repubblicana, il leader del gruppo al Senato Mitch McConnell.

Il motivo? Semplicemente la stretta presa sul partito repubblicano da parte di Donald Trump fa preoccupare la Casa Bianca, dato che il sostegno nei suoi confronti sta arrivando da parte di molti esponenti anche del gruppo al Senato, compreso il numero due John Thune, che pure si è espresso piuttosto tiepidamente, senza particolari slanci.

Nessuna notizia esplicita da parte di McConnell, che nel primo biennio è stato un prezioso e informale alleato del presidente Biden nel portare a compimento l’iter legislativo di provvedimenti bipartisan come quello dedicato alle rinnovo delle infrastrutture, quello sulla produzione dei semiconduttori sul suolo americano, ma anche per quanto riguarda i primi pacchetti di aiuti verso l’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin.

La guida del mondo

Sia McConnell che Biden, infatti, si sono formati politicamente negli anni della Guerra Fredda e condividono, sia pur con accenti diversi, l’opinione che gli Stati Uniti siano la guida del mondo libero e debbano giocare un ruolo di difesa delle democrazie.

In aperto contrasto con la linea di America First di Donald Trump, che applica a tutti i campi, politica estera compresa, un cinismo imprenditoriale che bada al mero interesse immediato degli Stati Uniti. McConnell solitamente rifugge le interviste e spesso negli articoli su media americani il suo nome appare accanto alla dicitura «non ha voluto rilasciare dichiarazioni».

Per questo ci si affida ai retroscenisti del Campidoglio e in questi giorni sono usciti due pezzi confliggenti: da un lato c’è la versione pubblicata dal sito Punchbowl News, fondato dall’ex giornalista del magazine Politico Jack Schafer che testimonia di un meeting dove McConnell riconosce «la nuova realtà politica» di dominio da parte di Trump con cui si dovevano fare i conti.

Del resto per McConnell, a novembre, ci può essere nuovamente in ballo la maggioranza del Senato e quindi un nuovo ruolo di stratega accanto a Trump. Dall’altro c’è invece la versione proprio di Politico, con un leader diverso, tuttora intenzionato a concludere un accordo fondamentale per proteggere «solidi interessi» americani.

Un’impronta che un politico di quasi ottantadue anni vuole lasciare come segno positivo per la sua eredità politica da statista. Anche perché sarebbe stato, di fatto, un disconoscimento del ruolo da negoziatore del suo collega Lankford. Chi ha ragione tra le due testate? Si vedrà nelle prossime settimane.

Forzare la mano

Quello che è certo che nel frattempo Trump e il suo entourage stanno sparando a palle incatenate contro questo accordo e l’ex presidente ha intimato allo speaker della Camera, il repubblicano Mike Johnson, di rifiutare ogni patto che non sia «perfetto», perché è prioritario respingere «un’invasione». E Johnson nella giornata di venerdì ha avvertito i senatori dicendo che c’è il rischio che ogni bozza d’intesa potrebbe diventare «lettera morta» quando arriva alla Camera.

Quindi, che fare? Uno dei consigli che lo stesso McConnell ha fatto trapelare verso la Casa Bianca è quella di spacchettare il provvedimento e magari di ridurre i fondi destinati all’Ucraina per render il tutto più digeribile all’ala conservatrice.

Rimane comunque da parte trumpiana la volontà di forzare la mano al presidente per ripristinare le sue durissime politiche migratorie. Difficile che Biden si convinca, specie in un periodo dove lo statista sta lasciando sempre più spazio a un candidato che deve riconquistare i cruciali voti progressisti persi in occasione del sostegno ad Israele dato dopo lo scoppio del conflitto con Hamas lo scorso 7 ottobre.

In tutto questo non c’è ancora un’ovvia exit strategy da questa situazione se non l’ottimo desiderato dal candidato in pectore dei repubblicani alla Casa Bianca: una rottura del dialogo e la cancellazione di questo pacchetto di aiuti, da sostituirsi con uno destinato soltanto a Israele e alla sicurezza del confine, da forgiare alla Camera per far sì che vada potenzialmente a sbattere sia contro i numeri del Senato sia contro un veto del presidente.

E favorire in questo una narrazione politicamente congeniale a Donald Trump, che dovrebbe tornare per «fare ciò che i democratici non erano più capaci di realizzare».

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