Dopo quello delle truppe francesi, il ritiro dal Mali delle forze delle Nazioni unite (Minusma) sta rilanciando la guerra all’estremo nord del paese. Il tema è sempre lo stesso: a chi i Caschi blu devono retrocedere le basi nelle quali sono istallati dal 2012?

Secondo la Cma, il coordinamento dei movimenti dell’Azawad, una complessa coalizione di tuareg e altri movimenti ribelli e/o indipendentisti del nord Mali, le basi devono essere date alle loro forze: la regione sarebbe di loro pertinenza. Il governo di Bamako vuole invece cogliere l’occasione per riportare l’esercito nazionale (Fama)  nelle stesse regioni da cui era stato cacciato durante la guerra contro i jihadisti. L’accordo di Algeri del 2015 parla di tale eventualità ma il testo resta ambiguo e ognuna delle due parti lo interpreta a proprio favore.

L’alleanza con i jihadisti

In realtà la Cma deve farsi perdonare il peccato originale di essersi alleata con i jihadisti durante la prima fase della guerra, per poi pentirsene amaramente. I jihadisti dello Jnim (movimento in difesa dell’islam e dei musulmani, di radice al Qaeda) fecero presto a sbarazzarsi dai secessionisti tuareg e affiliati, per puntare verso sud, prima di essere fermati dall’esercito francese. A loro interessava –e interessa ancora- tutto il potere e non l’agenda separatista dei nomadi. A quel punto la Cma si ravvide e cercò l’accordo con il governo che aveva da poco combattuto. Nacquero così gli accordi di Algeri in cui nessuna delle due parti ha mai dimostrato di credere davvero.
Certamente un errore francese fu paradossalmente di crederci un po’ troppo, tanto da permettere alle milizie tuareg di riprendere posizione in alcuni centri dell’estremo nord. Il gesto fu preso come un tradimento da parte della popolazione maliana nel suo complesso (che non ha mai amato i tuareg) e in particolare da parte delle Fama. Nasce da lì la campagna antifrancese cavalcata dai movimenti di piazza e dall’esercito che alla fine ha preso il potere nel 2020, cacciando poi i francesi. Ma questa è un’altra storia. Oggi la questione divide esercito maliano dalla Cma, che bene o male hanno convissuto finora.

Il non detto

La rottura porta alla luce un non detto che da troppo tempo si trascina: i tuareg e i loro alleati nomadi (come i tebu) non ne vogliono sapere delle istituzioni nazionali maliane. Nel 2011-2012 avevano creduto di poter manipolare i jihadisti a loro vantaggio. Dopo aver compreso che stava avvenendo esattamente il contrario, si sono riavvicinati al governo centrale ma senza alcun entusiasmo. Dall’indipendenza del Mali – come nel vicino Niger – siamo infatti alla quinta guerra tuareg contro il potere centrale detenuto dai bantu. La diatriba non ha mai trovato soluzione e gli accordi firmati in questi decenni dal paese, incluso quello del 2015, sono sempre stati tutti disattesi e mai applicati.

L’unica nota certa è l’immane corruzione che, come una cancrena, ha fino adesso distrutto qualsiasi programma di aiuti al nord, e che ora coinvolge anche la Wagner o ciò che ne resta.
Nel complesso gioco di scacchi in cui il paese è piombato dalla caduta di Gheddafi in Libia, esiste anche un aspetto personale: l’attuale capo della giunta militare, colonello Assimi Goita, era al fronte nel 2012 quando dovette ripiegare verso Bamako in tutta fretta, inseguito proprio dai miliziani dell’attuale Cma che volevano catturare tutta la sua unità dopo averla messa in fuga.

È evidente che ad avvantaggiarsi di tale frattura sono i jihadisti che si stanno rafforzando. Mentre esercito maliano e tuareg gareggiano per il controllo di Kidal o Tessalit all’estremo nord, i jihadisti dello Jnim assediano di nuovo la molto più importante Timbuctu, isolandola dal resto del paese.
Tuttavia anche loro hanno conflitti interni: tra lo Jnim e lo stato islamico del grande Sahara ci sono continui e gravi combattimenti per il supremazia della regione al confine con Burkina e Niger, detta delle “tre frontiere”. La guerra del Mali si sta eternizzando: cambia aspetto e muta la posizione degli attori ma non se ne vede la fine. 

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