In Africa la democrazia all’europea ha deluso. Come vediamo dalle manifestazioni popolari nel Sahel, si fa largo una nuova forma di anticolonialismo non più di matrice marxista come negli anni 60 e 70, che fu pur sempre un prodotto della cultura europea. Si tratta di un fenomeno diverso, una “scossa epilettica” come scrive Domenico Quirico, incarnata dai militari e sostenuta dalla massa dei più poveri, coloro che non sono riusciti ad intercettare nemmeno in parte qualcosa delle ricchezze del mercato globale.

Tale forma anticoloniale imputa all’Occidente di aver sostenuto caste dirigenti corrotte e antidemocratiche. Sotto accusa anche la classe media africana, considerata affaristica e predatoria, inserita come intermediaria nel mercato.

A differenza del ceto medio impiegatizio e pubblico dei primi decenni dopo le indipendenze, si tratta di un élite con poco senso dello stato, che ama il privato e non intende cambiare i rapporti sociali, né tantomeno fare la rivoluzione. Di conseguenza a protestare resta solo la fascia dei più miseri che si affidano all’ultimo venuto che offra loro un residuo di speranza, siano essi jihadisti, militari o la Wagner.

Nel Sahel si assiste agli ultimi sussulti della lunga agonia del modello francese di decolonizzazione incompleta. Tali proteste sono per la maggior parte guidate da forze endogene e annunciano una “seconda decolonizzazione”, questa volta integrale e definitiva. Si tratta di un lungo processo: il controllo che la Francia manteneva sulle sue ex colonie si era già in gran parte allentato all'inizio del secolo.

Nell'attuale svolta africana, Francia ed Europa diventano attori secondari al pari di tanti altri. Nel bene e nel male, gli africani sono i veri protagonisti. Senza bisogno di scomodare Russia o Cina, lAfrica è entrata da sola in un nuovo ciclo storico. Le indipendenze africane degli anni 60 non sono sfociate in sistemi democratici ma in regimi autoritari, segnando il fallimento del panafricanismo. Ne sono scaturiti stati africani ibridi, gestiti da élite occidentalizzate, legate all’Europa e alla sua cultura ma non seguaci del liberalismo politico e dello stato di diritto.

Si è trattato di regimi double-face, in grado di navigare nel complicato universo della guerra fredda e di adattarsi al sistema predatorio dell’economia mondiale. L’alternativa non poteva essere rappresentata dagli stati africani alleati al blocco dell’est, anch’essi gestiti in maniera autoritaria. Lo stato e le istituzioni sono stati progressivamente considerati come fossero proprietà privata.

Come scrive Achille Mbembe: “addossata ad una logica di accaparramento, la classe dominante si è riprodotta a discapito delle società locali, innestandosi nelle reti di accumulazione nazionali e transnazionali”. Sappiamo com’è andata: la gran parte di tali reti riguardavano l’estrazione e lo sfruttamento delle risorse nazionali -minerarie e agricole-, evitando di costruire un settore economico nazionale.

A partire dagli anni ‘90 le politiche di aggiustamento strutturale hanno accentuato la privatizzazione dei beni pubblici e l’incetta delle ricchezze nazionali da parte delle stesse élite al potere. Ciò che veniva sfruttato quasi fosse proprietà privata, lo divenne davvero. Di fronte a tale fenomeno ogni forma di dissenso non è riuscita ad allontanarsi dalle logiche tradizionali (etnico-tribali, claniche o religiose), che né le elezioni multipartitiche né i colpi di stato militari hanno mai superato.

In tale atmosfera tutto si inquina a contatto con la logica competitiva della globalizzazione. In certi casi un anti-imperialismo fuori tempo è stato strumentalizzato da vecchi leader sovranisti che non hanno temuto di utilizzare elementi di odio razziale pur di mantenere il potere. Si tratta della versione africana del sovranismo populista europeo. Invece dei migranti e dei “clandestini”, in Africa si additano come colpevoli di tutti i mali alternativamente i “francesi”, gli occidentali o i “bianchi” (e qualche volta anche la Cina).

Per ciò che resta dell’élite democratica africana e per quella parte della società civile disposta a battersi, diviene difficile affrontare allo stesso tempo l’alleanza tra l’iperliberismo competitivo e privatizzatore della globalizzazione e il “colonialismo interno”, sia che si presenti nella forma di golpe militare che in quella di una gerontocrazia clanica. Il desiderio di democrazia in Africa non è venuto meno ma si è modificato.

In Europa ci accontentiamo della limitata spiegazione sui “migranti economici”, spinti a muoversi essenzialmente dalla mancanza di lavoro. Non è così, o almeno non più: molte ragioni rappresentano push factor più forti, come la violazione del rispetto dei diritti umani; il valore della vita; le crisi ambientali; la mancanza di sistemi sanitari ed educativi validi ecc.

In breve si può dire che il giovane africano non vuole morire a causa di malattie curabili in Europa, né vuole restare senza le opportunità offerte dall’educazione. Per questo si organizza e fugge: la lotta per la sopravvivenza diviene prioritaria. La qualità di una democrazia si calcola prima di tutto su come tratta i propri cittadini e non tanto sulla sua politica estera. Si comprende così l’errore degli europei quando si affidano a leader locali autoritari: è proprio da costoro che i giovani africani fuggono alla ricerca di futuro.

La domanda democratica dei popoli africani è nata con l’aspirazione all’indipendenza: la ricerca di autodeterminazione politica andava di pari passo con quella dell’eguaglianza sociale nel quadro dello stato di diritto. Certo il bilancio è mediocre: si è passati da un sistema bloccato a partito unico a dei sistemi semi-bloccati a partito dominante, anche se alcune alternanze sono possibili. C’è stato un avanzamento: ora nell’immaginario politico africano sono presenti regole che non possono essere trasgredite, pena l’esclusione dai consessi regionali e continentali.

Tuttavia in certe zone d’Africa le libertà civili e politiche sono in serio pericolo e la violenza di stato ancora forte. Di fronte a tutto questo le nuove forme di mobilitazione della società (si pensi ai social media divenuti veri spauracchi per i governi in carica) testimonia della vitalità resiliente di alcuni strati della popolazione, in particolare tra i giovani in zona urbana che chiedono più inclusività. Se ciò non avviene e se vi sono dei ritorni indietro, come i recenti golpe militari nel Sahel, significa che la società civile e politica africana non ha ricevuto appoggi sufficienti da parte degli stati a democrazia avanzata. Più che pensare ad interventi armati ex post, per l’Europa si tratta di impegnarsi in funzione preventiva.

Tale iniziativa non può limitarsi all’opzione securitaria: occorre sostenere l’apertura del campo politico-sociale e favorire nuove forme di partecipazione dei cittadini. Ancor prima è necessario non lasciar deperire i settori sanitario ed educativo, vere e proprie priorità pubbliche erga omnes. L’Ue deve capire che i problemi dello sviluppo non discendono da incapacità tecniche, finanziarie o amministrative: è necessario uscire da tale approccio tecnicistico dell’aiuto pubblico allo sviluppo e dare fiducia agli africani, prendendo sul serio l’autocomprensione che le società del continente hanno di sé stesse.

La connessione democrazia-iperliberismo non aiuta: ecco perché all’Europa conviene rafforzare la società civile e i corpi intermedi. È altresì necessario comprendere che nel continente l’essenziale delle relazioni economiche è informale (cioè precario, insicuro e brutale) e di conseguenza lo divengono anche i rapporti della vita sociale.

Rimane aperta la sfida di un’economia estrattiva e predatoria che sembra essere una maledizione da cui l’Africa non riesce ad uscire. In conclusione si può dire che dopo la generazione sacrificata dell’aggiustamento strutturale (1985-2000), oggi ne giunge a maturità un’altra che non vuole fare la stessa fine. Per questo si ribella a modo suo e non si fida più di nessuno. La sfida europea è di ricreare un terreno d’intesa riscostruendo le basi di un dialogo comune. 

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