C’è chi stringendogli la mano ha abbozzato un inchino e chi ha azzardato un goffo saluto in mandarino, al quale Xi Jinping ha risposto con un sorriso compiaciuto e benevolente, perfettamente a suo agio tra i rappresentanti di Corporate America, come tra i contadini incontrati nelle ispezioni nelle aree interne del Paese. Immagini, subito diventate virali sui social, che sul fronte interno, alla classe media preoccupata per il rallentamento della crescita, hanno mandato il seguente messaggio: i ricchi e potenti manager statunitensi stanno dalla parte della Cina.

«La Cina sta elaborando e attuando una serie di passi importanti per estendere le riforme», che «creeranno ulteriore spazio per lo sviluppo» delle compagnie straniere in Cina, ha assicurato il presidente a una ventina di ceo e accademici Usa ricevuti mercoledì scorso a Pechino nell’ala orientale della Grande sala del popolo, quella riservata agli incontri più importanti.

Tra i notabili arrivati dall’altra parte di un Pacifico al centro del confronto (economico, politico e militare) tra la potenza egemone e quella in ascesa c’erano Cristiano Amon, il presidente della compagnia leader nella produzione di semiconduttori Qualcomm, quello di Blackstone Stephen Schwarzman, a capo di una delle maggiori società finanziarie del pianeta, e Raj Subramaniam, alla guida del gigante delle consegne FedEx, e poi i dirigenti di Pfizer, Bloomberg e tante altre. Multinazionali che rappresentano un modello per la “Nuova era” proclamata da Xi, che col suo “sviluppo di alta qualità” incoraggia la creazione di giganti cinesi in grado di competere sui mercati interazionali con prodotti e servizi ad alto valore aggiunto.

L’udienza con Xi – organizzata dal National Committee for U.S.-China Relations, dallo U.S.-China Business Council (Uscbc) e dal think tank Asia Society – è durata un’ora e mezza. Tra gli invitati all’incontro, al quale ha partecipato anche il ministro degli esteri Wang Yi, c’era Graham Allison, il teorico della “Trappola di Tucidide”. Tutti si sono detti d’accordo che una guerra tra la Cina e gli Stati Uniti si deve e si può evitare.

Le richieste delle corporation

Ma per continuare a svolgere il ruolo di ambasciatrice del mercato cinese nelle stanze dei bottoni a Washington, Corporate America pretende di partecipare ai dividendi della “Nuova era” come ai tempi della “fabbrica del mondo” che aveva contribuito a mettere su. E così lo Uscbc ha chiesto a Xi e compagni di «riequilibrare l’economia cinese aumentando i consumi e affrontando le preoccupazioni di vecchia data relative ai flussi di dati transfrontalieri, agli appalti pubblici, ai diritti di proprietà intellettuale e al miglioramento della trasparenza e prevedibilità dei regolamenti».

All’inizio del mese Pechino ha promesso per l’ennesima volta di accorciare ulteriormente la lista dei settori (strategici) nei quale gli investimenti esteri in Cina subiscono forti limitazioni, aprendo quello delle telecomunicazioni e della medicina. Inoltre, per sostenere l’economia sono in arrivo massicci investimenti. In una circolare appena pubblicata il Consiglio di stato ha annunciato un aumento degli investimenti in macchinari per l’industria pesante, l’edilizia, l’agricoltura, nei trasporti, nell’istruzione e nella sanità di almeno il 25 per cento entro il 2027 rispetto allo scorso anno.

Agli ospiti americani Xi ha ricordato che l’economia cinese è “sana e sostenibile”, e che nel 2023 la Cina ha rappresentato oltre il 30 per cento della crescita globale, come negli anni precedenti. Il segretario generale del Partito comunista ha utilizzato tutta la sua capacità retorica e il suo carisma per convincerli che conviene continuare a scommettere sulla Cina, anche se nel 2023 gli investimenti diretti dall’estero (Ide) sono scesi al livello più basso degli ultimi 30 anni (33 miliardi di dollari) e nei primi due mesi di quest’anno hanno registrato una diminuzione del 19,9 per cento.

Da Clinton a Biden

Questi manager con stipendi da capogiro (Schwarzman ha guadagnato 897,7 milioni di dollari nel 2023) sono diventati, in epoca post Tiananmen, dei veri e propri alleati del Partito comunista cinese, avendo sostenuto il progetto di sviluppo di quella che sarebbe diventata la “fabbrica del mondo”.

Multinazionali come Apple – con la loro manifattura in parte appaltata a compagnie locali – in Cina danno lavoro a milioni di persone, contribuiscono al prodotto interno lordo del Paese e, soprattutto, a mantenerlo al centro della globalizzazione. Una potentissima calamita contro ogni forma di “decoupling”, uno strumento preziosissimo mentre al Congresso si affastellano i progetti di legge che vedono il pericolo cinese ovunque, nelle auto elettriche, nelle app come TikTok, negli accademici finiti sotto inchiesta, tutti sospettati di costituire una minaccia per la “sicurezza nazionale”, come ai tempi del maccartismo.

Fu Corporate America a convincere Bill Clinton nel 1994 a voltare le spalle alle battaglie anti delocalizzazioni dei sindacati e alle organizzazioni per la difesa dei diritti dell’uomo, rinnovando alla Cina lo status di “most-favourite-nation”, ovvero un regime tariffario di reciprocità nell’import-export. E, oggi come allora, l’azione di lobbying del Pcc è rivolta al mondo della finanza transnazionale e alle multinazionali hi-tech e dei servizi: sono loro che a Washington dovranno convincere il potere politico che all’America conviene ancora scommettere sulla Cina.

Trent’anni fa, l’epica battaglia sullo lo status di “most-favourite-nation” terminò con la vittoria del capitale sul lavoro e sui diritti, e aprì la strada alle massicce delocalizzazioni che hanno arricchito la Cina. Dopo tre decenni, la Cina non deve più far dimenticare Tiananmen e i salari da fame, ma quella che in occidente è stata percepita come la “hybris” del XIX congresso del Partito comunista (18-24 ottobre 2017), il caotico lockdown di Shanghai della primavera 2022, la crisi del settore immobiliare, la debolezza della domanda interna, il giro di vite contro le compagnie private del 2021-2022 e la legge anti spionaggio recentemente approvata. Un mix di autoritarismo e di contraddizioni di un sistema senza precedenti.

Charm offensive

Ai businessmen Usa Xi l’ha messa così: «Lo sviluppo della Cina ha attraversato ogni tipo di difficoltà e sfida per arrivare al punto in cui si trova oggi. La Cina non è crollata come previsto dalla “teoria del collasso cinese”, né ha raggiunto il picco come previsto dalla “teoria del picco cinese”».

Due giorni prima del vertice Pcc-Corporate America nella Grande sala del popolo, il ministro del commercio, Wang Wentao, aveva incontrato a Pechino l’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, e quello di Visa, Ryan McInerney a margine del China Development Forum.

A Singapore invece mercoledì è stato inviato Liu Jianchao: il capo del dipartimento esteri del Pcc ha partecipato al forum FutureChina, con i leader della città-stato, tradizionalmente un “ponte” tra Cina e Stati Uniti. E aprendo giovedì nell’isola di Hainan il Boao Forum for Asia, il numero tre della nomenklatura del Pcc, Zhao Leji, ha indirizzato lo stesso messaggio di speranza – «investire nella Cina è investire nel futuro» – ai rappresentanti imprenditoriali e politici dei vicini asiatici.

La Cina è diventata “ininvestibile”, come ha dichiarato l’anno scorso la segretaria al commercio, Gina Raimondo, facendo apparire, dietro l’embargo hi-tech, lo spettro di un vero e proprio “containment” economico Usa?

Al contrario, la Cina della “Nuova era” è convinta che le sirene dei suoi mercati – nonostante la competizione delle aziende locali e la debolezza della domanda interna – possano continuare ad attirare gli stranieri. Xi si è detto convinto che «continueremo a far avanzare lo sviluppo di alta qualità e la modernizzazione cinese, a permettere al popolo cinese di vivere una vita migliore, e a contribuire maggiormente allo sviluppo sostenibile del pianeta. Siamo sicuri che lo sviluppo cinese abbia un futuro brillante».

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