C’è un’America nostalgica della Guerra fredda, che sogna di cacciare le Big Tech cinesi che minaccerebbero la “sicurezza nazionale”: è quella del Palazzo, i deputati che il 13 marzo scorso hanno votato (352 sì e 65 no) per mettere al bando TikTok negli States. E poi c’è “Corporate America”, le grandi multinazionali che per sopravvivere in Cina devono collaborare con le concorrenti locali.

E così accade che se per i congressmen l’intelligenza artificiale (Ia) cinese va contrastata per le sue potenziali applicazioni da parte dell’Esercito popolare di liberazione, al contrario essa si rivela un’alleata indispensabile per Apple, per continuare a essere protagonista nel suo terzo mercato (dopo gli Usa e l’Ue). La compagnia di Cupertino sta infatti cercando un accordo con Baidu per installare sui suoi iPhone Ernie, il principale rivale cinese di ChatGpt.

Sviluppato dalla compagnia di Robin Li, Ernie ha il problema di far crescere i suoi large language models (Llm) senza i più avanzati acceleratori Nvidia, la cui vendita è stata vietata alla Cina dall’amministrazione Biden. A Pechino però hanno scommesso su Ernie, che punta a essere altrettanto performante di ChatGpt (non mancano né i dati con cui alimentarlo, né informatici per istruirlo), ma che dovrà anche rispettare la legge, ovvero attenersi al politicamente corretto e alla rigida censura della “Nuova èra” proclamata da Xi Jinping.

Secondo quanto riportato dal Wall Street Journal, Apple sta discutendo contemporaneamente con le statunitensi Google e OpenAi sull’intelligenza artificiale che dovrà entrare nei suoi dispositivi nel resto del pianeta. Due sistemi paralleli, uno per la Cina, l’altro per il mondo non-cinese.

Ia politicamente corretta

Una scelta obbligata si dirà, dal momento che Ernie di Baidu è al momento di gran lunga il miglior Llm cinese e che le autorità di Pechino hanno bloccato l’accesso a ChatGpt. Sta di fatto che, con l’eventuale intesa con Baidu sull’intelligenza artificiale, Apple contribuirebbe all’espansione e al rafforzamento del più colossale e sofisticato apparato di propaganda della storia dell’umanità, quello della Repubblica popolare cinese.

Ma, come si sa dai tempi dell’imperatore Vespasiano, pecunia non olet: la mela deve tutelare gli interessi dei suoi azionisti in un mercato strategico come quello cinese, che però nel quarto trimestre 2023 è stato l’unico dove non è cresciuta, avendo registrato un -12,9 per cento, per un fatturato di 20,8 miliardi di dollari. Per quanto riguarda gli smartphone, anche se l’anno scorso ha conquistato per la prima volta la vetta (17,3 per cento delle vendite), è tallonata da Honor, Oppo, Vivo, Xiaomi, in un settore sempre più competitivo, nel quale Huawei ha lanciato la “bomba” del suo Mate 60 Pro, che monta il nuovo super-processore Pro Kirin 9000S.

Consegnati alla storia economica gli anni ruggenti in cui una classe media aperta all’occidente rincorreva qualsiasi cosa che non fosse made in China, oggi l’unico modo per restare competitivi in un paese che fabbrica beni di consumo di qualità crescente a prezzi vantaggiosi è andare a braccetto con quelle stesse compagnie rampognate dall’amministrazione Biden e dalla Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen per i loro presunti legami con il partito comunista.

E così Tim Cook ha colto l’occasione della sua visita di giovedì scorso a Shanghai – dove ha inaugurato l’ennesimo Apple store (il 57esimo nel paese)  – per incontrare Wang Chuanfu, Zhou Qunfei e Chen Xiaoshuo, presidenti rispettivamente di BYD (il primo produttore globale di auto elettriche), Lens Technology (leader nei sensori e pannelli tattili) e Everwin Precision Technology (componenti elettronici).

Ai manager delle aziende che rappresentano partner fondamentali nella sua filiera cinese, l’amministratore delegato di Apple ha assicurato che la mela è in Cina per rimanerci: «Siamo in Cina da 30 anni e rimango molto ottimista riguardo alla Cina nel lungo termine». E domenica 24 marzo Cook è atteso al China Development Forum organizzato a Pechino dal governo, per recapitare lo stesso messaggio a Xi.

L’embargo hi-tech funziona

La guerra commerciale, l’aumento del costo del lavoro e il rallentamento della domanda cinese stanno terremotando vecchi equilibri. La taiwanese Foxconn, principale datore di lavoro del settore privato e fornitore numero uno di Apple in Cina, ha appena aumentato a 2,7 miliardi di dollari l’investimento per l’impianto di Bangalore, in India, dove trasferirà parte della produzione cinese di iPhone. Per sostenere le sue operazioni in Cina, Apple ha appena annunciato l’espansione del suo centro di ricerca applicata a Shanghai e l’apertura di un nuovo laboratorio nel polo tecnologico meridionale di Shenzhen entro la fine dell’anno. Insomma una charm offensive a tutto campo.

Ma mentre Apple prova a rasserenare i vertici del partito comunista sulla sua strategia cinese, non si fermano le iniziative dell’amministrazione Biden per rallentare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale cinese. Il 6 marzo scorso Bloomberg ha rivelato che Washington sta facendo pressioni su Olanda, Germania, Giappone e Corea del Sud per impedire che questi paesi forniscano alla Cina una serie di materiali essenziali per la fabbricazione di microchip, nonché l’assistenza sulle apparecchiature per la produzione dei semiconduttori più avanzati. Il 1° gennaio scorso sono scattate le restrizioni imposte dal governo olandese (su richiesta dell’amministrazione Biden) sulle vendite dei macchinari per litografia a raggi ultravioletti profondi (Duv) della compagnia ASML.

Zeng Yi, proprietario dell’azienda di stato China Electronics Corporation ha ricordato durante l’ultima sessione della Conferenza politica consultiva del popolo cinese che il divario nella Ia tra Cina e Stati Uniti è ancora “enorme” e che «man mano che emergono in modo esponenziale nuovi sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale, se non verranno adottate misure decisive e innovative, corriamo il rischio di accumulare un divario ancora più ampio».

© Riproduzione riservata