Il corpo insanguinato sotto il telo bianco. La barella trasportata dalle braccia di decine di persone. Il giubbotto con la scritta press posto a scudo del cadavere. In un attacco israeliano contro l’ospedale Al-Ahli sono stati uccisi ieri tre giornalisti (Ismail Badah, Sulaiman Haja e Samir Al-Rifai). Altri sono rimasti gravemente feriti. Una scena che a Gaza è stata vista altre 225 volte dal 7 ottobre 2023.

Un numero altissimo. Secondo uno studio della Brown university non si raggiunge neanche se si sommano le uccisioni di giornalisti durante la guerra civile americana, la Prima e Seconda guerra mondiale, la guerra in Corea, quella in Vietnam, in Jugoslavia e in Afghanistan dopo l’11 settembre. Basta pensare che dal 2014 nel conflitto russo-ucraino ne sono stati uccisi 17 (tra cui anche il fotoreporter Andy Rocchelli).

Ogni tre giorni un operatore dell’informazione diventa un obiettivo militare dell’esercito israeliano. Oltre 115 organi di stampa sono stati distrutti da attacchi aerei e dall’artiglieria pesante. Tra questi ci sono uffici di agenzie stampa, redazioni, stazioni radio e televisivi e uffici stampa.

Negli attacchi avvenuti nella Striscia nelle ultime 24 ore sono state uccise altre 40 persone. Si aggiungono al bilancio generale che giorno dopo giorno si avvicina alle oltre 55mila vittime.

Il veto

Di fronte a ciò che sta accadendo la risposta del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stata, ancora una volta, inconcludente. Gli Stati Uniti hanno imposto, come prevedibile, il loro diritto di veto a una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco «immediato, senza condizioni e permanente» a Gaza. Quattordici voti favorevoli e uno contrario.

La risoluzione definiva la situazione nella Striscia come «catastrofica» e chiedeva l’eliminazione «senza condizioni di tutte le restrizioni all'ingresso degli aiuti umanitari e la loro distribuzione sicura e non ostacolata, incluso da parte dell'Onu e dai suoi partner umanitari».

È la quinta volta che Washington blocca una risoluzione nel quale si richiede il cessate il fuoco a Gaza. Nonostante i malumori tra il presidente Usa Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, l’alleanza è ancora salda. Immediate le reazioni degli altri membri. La Cina ha definito il veto «profondamente deludente» e ha accusato gli Usa di «aver spento ogni barlume di speranza per la popolazione a Gaza».

Dura, anche, la risposta della Russia: «Si è persa un’altra occasione per dimostrare la prontezza del Consiglio di sicurezza ad assumersi la responsabilità per mantenere la pace e la sicurezza internazionale nel contesto del conflitto israelo-palestinese che si protrae da 80 anni».

I corpi degli ostaggi

Mentre le trattative tra Hamas e Israele sono arenate, l’esercito dello stato ebraico è riuscito a recuperare i corpi di due ostaggi. Judy Weinstein-Hagi e Gadi Hagi, rispettivamente 70 e 72 anni, sono stati individuati dopo un’operazione di intelligence avvenuta a Khan Younis, nel sud della Striscia. Entrambi erano stati uccisi durante l’assalto al kibbutz Nir Oz lo scorso 7 ottobre.

L’operazione, secondo il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, dimostra che «è il momento di smettere di esitare». «Bisogna autorizzare l'Idf a implementare i piani per l'occupazione della Striscia, entrare con forza, smantellare Hamas, liberare gli ostaggi e promuovere l’emigrazione. Non dobbiamo perdere questa opportunità storica».

Ben-Gvir non ha mai nascosto i suoi intenti, è sempre stato contrario al raggiungimento di una tregua con Hamas e più volte ha minacciato il premier Netanyahu di lasciare la coalizione di governo in caso di accordo. Secondo i servizi di sicurezza israeliani a Gaza ora restano ancora 56 ostaggi, di cui 24 ancora in vita.

Scontro civile

Il conflitto si sta evolvendo verso una nuova fase. Fallito il tentativo di «annientare Hamas», l’esercito israeliano sta virando strategia. Secondo il Times of Israel che l’Idf ha fornito armi ai membri della milizia guidata da Yasser Abu Shabab. L’obiettivo è rafforzare i clan ostili ad Hamas.

Secondo i media il gruppo armato opera a Rafah, nell’area a sud di Gaza, che è sotto il controllo militare israeliano. La consegna di armi, però, sarebbe avvenuta senza il consenso del gabinetto di guerra dello stato ebraico. Una scelta che mette ancora di più in pericolo la popolazione civile.

Intanto un’inchiesta della Cnn, attraverso video geolocalizzati e testimoni oculari, smentisce la versione dell’Idf sugli spari contro la folla al centro di distribuzione degli aiuti alimentari a Rafah dello scorso primo giugno. A uccidere circa 30 civili sono stati i soldati israeliani.

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