Le vicende giudiziarie di Donald Trump hanno portato a uno scambio di pesanti accuse tra il presidente della commissione Giustizia della Camera dei rappresentanti Jim Jordan e il procuratore distrettuale di New York Alvin Bragg, che ha incriminato Donald Trump la scorsa settimana con 34 accuse legate al pagamento di 130mila dollari alla pornostar Stormy Daniels, avvenuto nel 2016.

Da un lato Jordan ha emesso un mandato di comparizione nei confronti dell’ex assistente di Bragg, l’avvocato newyorchese Mark Pomerantz, che tra il 2021 e il 2022 è stato parte del team che indagava sulle finanze dell’ex presidente, dopo che quest’ultimo si è rifiutato di testimoniare volontariamente di fronte alla commissione, che secondo Jordan vuole soltanto appurare se il procedimento non sia “politicamente motivato”. Alla quale Bragg ha risposto con un ricorso alla corte distrettuale del distretto meridionale di New York, ponendo il tema della costituzionalità della richiesta della commissione. Ricorso al momento respinto da un’ingiunzione della giudice Mary Kay Vyskocil, nominata da Trump nel dicembre 2019, anche se manca la decisione finale della Corte.

La strategia di Jordan

Quindi il ricorso di Bragg può andare a buon fine. Ci sono fondati motivi sul perché la commissione Giustizia abbia scelto proprio Mark Pomerantz. Classe 1951, già avvocato in un grande studio legale, con le sue mosse ha contribuito a far alzare qualche sopracciglio: le sue improvvise dimissioni nel febbraio del 2022 dall’incarico per conto di Bragg erano arrivate come un fulmine a ciel sereno, gesto che lui motivò con la riluttanza del procuratore nell’emettere un’incriminazione «per la quale c’erano tutti gli elementi».

Lo scorso 7 febbraio, un anno dopo le sue dimissioni, Pomerantz ha pubblicato un libro intitolato People v. Donald Trump. Poco prima dell’uscita in libreria, fu Bragg a chiedere all’editore Simon & Schuster di sospendere la pubblicazione e di procrastinarla di sessanta giorni, per verificare se il libro non contenesse informazioni riservate. Richiesta respinta.

Così come è stata rispedito al mittente anche l’avvertimento di uno dei legali di Trump, Joe Tacopina, che voleva bloccare il volume a causa di un paragone tra l’ex presidente e il noto boss mafioso newyorchese John Gotti. Uno dei procuratori dello stato di New York, il repubblicano Tony Jordan, già membro dell’assemblea statale di New York dal 2009 al 2013, attualmente a capo dei procuratori della contea rurale di Washington, ha definito le azioni di Pomerantz «una grave violazione dell’etica professionale» per aver rivelato al pubblico dei dettagli riservati su un procedimento in corso. Da questo dettaglio, quindi, è partito lo spunto per Jordan.

Jim Jordan, però, non è un deputato qualunque: è uno degli alleati più fedeli dell’ex presidente, uno dei trumpiani più radicali dell’intero congresso. Basta leggere la sua biografia per comprendere che nella sua richiesta di interferire con le indagini non c’è solo un legittimo dubbio.

I rischi per Bragg

Jordan, classe 1964, in carica dal 2007 per il quarto distretto dell’Ohio, si è sempre distinto per la radicalità delle sue posizioni. Aderente al caucus ultraconservatore del Tea Party nei primi anni del mandato di Barack Obama, nel 2015 è il fondatore e primo presidente dell’evoluzione di quell’esperienza, il Freedom Caucus. Un gruppo informale di ultraconservatori che si coalizzerà poi nel sostegno alla candidatura prima e poi alla presidenza di Donald Trump. L’estremismo del gruppo spesso ha infastidito la leadership repubblicana, ma non lo stesso Trump.

Si capisce anche perché: insieme al suo collega e futuro capo di gabinetto alla Casa Bianca Mark Meadows ha chiesto al dipartimento di giustizia i documenti che, a suo avviso, avrebbero dimostrato l’infondatezza delle indagini del procuratore speciale Robert Mueller sull’interferenza russa nella campagna presidenziale di Trump nel 2016, accusando il viceprocuratore generale Rod Rosenstein di aver «nascosto» importanti informazioni all’opinione pubblica americana.

La sua difesa di Donald Trump, ovviamente, si è spinta anche al diniego della legittimità della vittoria di Joe Biden nel 2020 ed è stato in prima linea nel sostenere gli sforzi della Casa Bianca di ribaltare il risultato elettorale, sino a rifiutarsi di certificarlo il 6 gennaio 2021, poche ore dopo l’assalto a Congresso da parte di una folla di manifestanti aizzati dall’allora presidente.

Il suo estremismo però è stato l’asset necessario, a inizio 2023, per fargli conquistare l’ambita presidenza della commissione Giustizia, dato il margine risicato di 222 deputati su 435 che hanno portato a un prolungarsi delle votazioni per confermare Kevin McCarthy nella carica di speaker. Al prezzo di nomine come questa, che già si sapeva che avrebbero usato i poteri del Congresso per cercare se non di bloccare, quantomeno di screditare le inchieste in corso.

Il 10 aprile l’account Twitter della commissione Giustizia ha diffuso la teoria cospirativa del comitato legale America First, fondato dallo stretto collaboratore di Trump Stephen Miller, sulle indagini relative ai documenti riservati rinvenuti nella residenza di Mar-a-Lago, che sostiene che l’ordine al dipartimento di giustizia di aprire l’indagine sarebbe arrivato direttamente dalla Casa Bianca.

Anche se non ci sono prove di questo, agli occhi dell’opinione pubblica repubblicana questo è più che sufficiente per minare la credibilità di un’indagine. E Jim Jordan, al momento, non viene criticato da nessun altro esponente politico. Favorendo quindi la discesa di Donald Trump verso una tranquilla riconquista della nomination nel 2024.

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