Le elezioni in Turchia sono sempre più vicine, ma il numero dei possibili sfidanti del presidente uscente Recep Tayyip Erdogan continua a diminuire. A rischiare l’uscita di scena adesso è il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu, condannato a due anni e sette mesi di carcere con l’accusa di aver insultato alcuni funzionari pubblici in un discorso tenuto nel 2019.

In quell’occasione İmamoğlu aveva definito «idioti» coloro che avevano annullato il risultato delle elezioni comunali dietro pressione del presidente. L’insulto lanciato dal sindaco di Istanbul era diretto ai membri della Commissione elettorale, ma İmamoğlu ha sempre affermato che le sue parole erano in realtà rivolte al ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, che lo aveva a sua volta definito un pazzo.

Vittoria e persecuzione

Il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu (AP Photo/Khalil Hamra)

Le urne del 2019 avevano decretato la vittoria dell’opposizione in diverse città chiave della Turchia, tra cui la stessa Istanbul, ed erano state dichiarate nulle a seguito del ricorso per irregolarità presentato da Erdogan. Le nuove votazione hanno però riconfermato i risultati già emersi in precedenza, segnando una dura sconfitta per il partito di governo e per i suoi alleati.

La vittoria alle urne però è coincisa con una nuova ondata di persecuzione politica, come dimostra anche il caso di İmamoğlu. Il primo cittadino, esponente di spicco del partito kemalista Chp, ha fatto ricorso alla Corte d’appello tramite i suoi legali, ma se la sentenza dovesse essere confermata dovrà dire addio all’incarico che attualmente ricopre e anche alle prossime elezioni.

A giugno i cittadini turchi sono chiamati nuovamente alle urne e İmamoğlu è in lizza per rappresentare la coalizione formata da sei partiti dell’opposizione, uniti dalla volontà di mettere fine al potere di Erdogan. I tempi necessari per l’appello, però, riducono le possibilità del sindaco di Istanbul di guidare l’opposizione alle prossime elezioni.

Attacco all’opposizione

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L’esponente del Chp non è l’unico politico al centro di un procedimento giudiziario che rischia di porre fine alla sua carriera. Altri 108 esponenti dell’Hdp, il partito filocurdo, sono in attesa di giudizio con l’accusa di terrorismo e, se giudicati colpevoli, saranno banditi dalla vita politica del paese.

La loro condanna potrebbe essere anche utilizzata per mettere definitivamente al bando lo stesso Hdp, da mesi a rischio chiusura a causa dei presunti legami con il Partito dei lavoratori (Pkk), considerato dalla Turchia un’organizzazione terroristica.

I 108 membri dell’Hdo sono accusati di aver fomentato le proteste che scoppiarono nel 2014 nel sud-est della Turchia e di aver incitato i cittadini curdi a compiere atti di violenza contro il governo, che aveva scelto di non intervenire a difesa della città siriana di Kobane, in quel momento sotto assedio dell’Isis. Il governo aveva anche disposto la chiusura delle frontiere, impedendo pertanto agli attivisti curdi di portare aiuti alla popolazione di Kobane e facendo alzare ulteriormente la tensione.

Le manifestazioni nel sud-est furono poi represse nel sangue dalla gendarmeria turca, che aprì il fuoco sui manifestanti causando la morte di almeno 50 persone. A finire sotto processo però sono stati gli esponenti dell’Hdp, tra cui i due ex co-presidenti, Selahattin Demirtas e Figen Yuksekdag, già in carcere dal 2016.

Per il partito, le motivazioni alla base del processo sono prettamente politiche e il procedimento è stato portato avanti al solo scopo di indebolire una formazione risultata già fondamentali per la vittoria dell’opposizione nelle elezioni comunali e che alle prossime votazioni dovrebbe ugualmente svolgere un ruolo decisivo.

Per scongiurare questo scenario, dunque, il governo avrebbe scelto la strada della persecuzione politica, colpendo però non solo l’Hdp ma più in generale i partiti di opposizione e le figure che rappresentano una minaccia alla tenuta dello status quo.

Processi come quelli contro İmamoğlu e l’Hdp servono anche a distrarre dai problemi interni del paese, in primis da quello economico. L’inflazione in Turchia ha ormai superato l’80 percento, il costo della vita continua a salire e i cittadini devono fare i conti con l’aumento costante di affitti ed energia.

Erdogan ha cercato di distogliere l’attenzione dai problemi economici annunciando una nuova campagna militare contro la Siria del nord-est, ma nemmeno l’attentato a Istanbul – prontamente attribuito alle formazioni curde nazionali e non – è bastato per avere il via libera della Russia e degli Usa all’operazione di terra.

Anche l’incontro tra Erdogan e il presidente siriano Bashar al Assad sul futuro della Siria è ancora lontano dal tenersi, nonostante gli annunci turchi. In compenso, l’esplosione nel cuore di Istanbul ha inferto un duro colpo alla reputazione del governo e dei servizi segreti, accusati di non saper garantire adeguati livelli di sicurezza alla popolazione. L’unica carta rimasta in mano a Erdogan, dunque, è quella dell’eliminazione per via giudiziaria dei propri sfidanti.

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