Il 31 agosto l’Onu ha reso pubblico il rapporto sulle violazioni dei diritti umani commesse dal governo cinese contro la minoranza uigura nella regione dello Xinjiang. Il documento di 48 pagine dell’ufficio dell’Alto commissario delle Nazioni unite accusa la Repubblica Popolare di «gravi violazioni».

Il report, che fa riferimento al periodo tra il 2017 e il 2019, rappresenta un atto ufficiale di accusa dell’Onu contro la Cina, da anni sotto osservazione occidentale per le misure e le politiche applicate nello Xinjiang. La regione ospita 380 strutture che Pechino definisce «rieducative». In queste si trovano un milione di uiguri sui 12,5 che vivono nel territorio.

L’accusa

Secondo il documento non ci sono dubbi sulla «credibilità» delle accuse di torture, trattamenti medici forzati e condizioni di detenzione avverse, e credibili risultano anche «le accuse di singoli episodi di violenza sessuale e di genere».

La valutazione conclusiva del rapporto afferma che in un contesto di limitazione di diritti fondamentali, individuali e collettivi, le detenzioni arbitrarie nei confronti della minoranza uigura e di altre persone «possono costituire crimini internazionali, in particolare crimini contro l’umanità».

Nonostante il carattere netto delle accuse, la poca trasparenza che caratterizza i rapporti tra Cina e occidente comporta cautela nell’analisi di alcuni punti. A causa del divieto di accesso senza restrizioni alla regione – emerso anche in occasione della visita dell’Alto commissario a maggio – e della mancanza di dati affidabili, all’interno del rapporto toni e linguaggio variano a seconda del capo d’accusa.

Esiste un fondamento alla base delle denunce di violenze, rese «credibili» dall’assenza di supervisione e dal carattere discriminatorio della detenzione. Tuttavia resta complesso parlare di fatti concretamente dimostrabili a causa della scarsità di informazioni che non consente a chi indaga di «raggiungere conclusioni definitive sull’esatta entità di questi abusi».

I punti

Negli otto capitoli che compongono il documento si analizza la questione sotto vari aspetti: il quadro legislativo entro il quale il governo di Xi Jinping conduce la sua lotta contro terrorismo ed estremismo e il significato che la direzione cinese attribuisce a questi due concetti; la violazione di diritti legati all’identità religiosa, culturale e linguistica.

La sezione più consistente – quindici pagine – è dedicata a detenzione e privazione della libertà. Si cita a questo proposito il Defense White Paper cinese del 2019 secondo cui l’istruzione e la formazione all’interno delle strutture Vetc (Vocational Training and Employment Centres) «non sono misure che limitano o circoscrivono la libertà delle persone». Su questo punto l’Onu replica che secondo le leggi internazionali sui diritti umani l’individuo si considera privato della propria libertà ogni qualvolta sia «trattenuto senza il proprio consenso».

 

E si fa appello al rispetto degli obblighi internazionali anche riguardo al lavoro forzato. Il Congresso nazionale cinese, dice il report, ha di recente ratificato convenzioni che lo vietano e ha abolito il sistema di «rieducazione attraverso il lavoro», ma le testimonianze e gli studi condotti sull’organizzazione del lavoro nelle strutture Vetc testimoniano il contrario. Sull’adesione volontaria dei detenuti ai programmi di impiego restano forti perplessità, ma anche in questo caso è complesso ottenere maggiori dettagli su condizioni e rapporti di lavoro.

 

Raccomandazioni

Il rapporto si conclude con la formulazione di una serie di raccomandazioni non vincolanti. Tra queste l’invito al governo nazionale di prendere «provvedimenti tempestivi» per rilasciare tutte le persone arbitrariamente imprigionate nei campi o in qualsiasi altro centro di detenzione nella regione.

Si esorta poi Pechino a revisionare integralmente le politiche di sicurezza nazionale e antiterrorismo applicate nello Xinjiang in direzione di una piena conformità al diritto internazionale. Si richiede infine, in tempi brevi, un’indagine governativa per fare luce su privazioni, maltrattamenti e violenze. Non riceve alcuna conferma l’accusa di genocidio, formulata da Washington e da altre capitali occidentali.

 

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