L’incontro a Mosca tra i presidenti Emmanuel Macron e Vladimir Putin, e quello a Washington tra il cancelliere tedesco Olaf Scholz e il presidente Joe Biden, riguardano la crisi ucraina e sono entrambi la diretta conseguenza della «politica della mano tesa» con la Russia. Macron la persegue con ostinazione, pur sapendo che la politique de la main tendue può trasformarsi in una sberla in faccia. Scholz invece la espia: la sua «ambiguità strategica», come lui stesso la definisce, incrina i rapporti con la Casa Bianca fino a richiedere un incontro chiarificatore.

Il protagonismo di Macron

Tante telefonate in pochi giorni, poi la visita al Cremlino: così il presidente francese porta avanti il suo piano.

Dice di voler riportare l’Europa al centro dei dialoghi con Mosca sull’Ucraina, dopo che l’Unione europea era rimasta ai margini rispetto a Stati Uniti e Russia: «Se lasciamo che siano altri a parlare a nome nostro, non potremo contribuire alla nostra sicurezza collettiva». In realtà, l’ambizione di Macron per un dialogo diretto con Putin riflette anche una scommessa nazionale: mostrarsi protagonista nell’uscita diplomatica dalla crisi mentre incombono le elezioni presidenziali di aprile, e puntellare attraverso i contatti con Mosca la propria idea di «autonomia strategica». Non a caso, mentre l’inquilino dell’Eliseo si dirigeva in Russia, a Parigi tra candidati all’Eliseo ci si scontrava sull’opportunità della mossa.

Il candidato dell’ultradestra xenofoba Éric Zemmour, sostiene che l’iniziativa sia «tardiva»; viva il dialogo con Mosca, dice insomma Zemmour riecheggiando la Marine Le Pen dei vecchi tempi, «il problema è che di Macron Putin non si fida».

La scommessa del «dialogo»

Seduto allo stesso tavolo dove qualche giorno fa si trovava il primo ministro ungherese Viktor Orbán, Macron ha atteso dal presidente russo «un segno». Quel che nessuno, né Parigi né Mosca, si aspetta o promette, è una risoluzione miracolosa e immediata della crisi: Parigi chiede un segnale di désescalade, de-escalation, e Mosca avverte di non aspettarsi svolte decisive nel giro di un colloquio. La dote principale che l’Eliseo porta al Cremlino è del resto proprio il riconoscimento del suo punto di vista. «Iniziamo a battezzare una risposta utile per la Russia», dice Macron prima dell’incontro. Asseconda il Cremlino a cominciare dai termini della discussione: «L’obiettivo geopolitico russo non è l’Ucraina, questo è chiaro, ma semmai chiarire le regole di coabitazione con la Nato e con l’Ue», sostiene Macron. Nel documento consegnato da Washington a Mosca, l’ipotesi di escludere l’allargamento dell’alleanza atlantica non era contemplata, e infatti il Cremlino aveva considerato «elusa la questione principale». Macron si mostra invece disponibile a maneggiarla, e Putin lo ricompensa con parole di apprezzamento: «Riconosco gli sforzi fatti dalla Francia per risolvere la questione della sicurezza in Europa», dice il presidente russo.

Precedenti scivolosi

I francesi sanno perché il loro presidente scommette, in chiave elettorale, sulla visita a Mosca: la ragione è che spera di replicare il colpo diplomatico di un suo predecessore.

Nell’agosto 2008, anche all’epoca con la Francia alla presidenza di turno in Ue, l’allora presidente Nicolas Sarkozy aveva vestito i panni di mediatore con Mosca nel pieno di una crisi che coinvolgeva, in quel caso, la Georgia. L’anno prima, Putin aveva avvertito Sarkozy: se alzi i toni con me, «aspettati una sberla»; viceversa, «farò di te il re d’Europa». Da ex presidente, Sarkozy mostra ancora i segni di rapporti ambigui con Mosca: tra gli scandali esplosi nel 2021, c’è quello che riguarda i soldi ricevuti dalla compagnia assicurativa russa Reso-Garantia; e da Sarkozy, a Parigi, è passato Orbán prima di andare al Cremlino pochi giorni fa.

Non c’è bisogno di andare lontano nel tempo per capire che la «strategia del dialogo» di Macron è un’arma a doppio taglio: ha potuto constatarlo Macron stesso. Appena eletto, nel 2017, ha ricevuto Putin a Versailles «come lo zar Pietro il grande». Si dice che tra gli obiettivi ci fosse anche disallineare Cina e Russia; gli ultimi eventi, anche sulla scacchiera ucraina, dicono che la missione è fallita. Nel 2019, Macron ha continuato a parlare con toni entusiastici di «dialogo»; intanto si sono susseguite crisi, dal caso Navalny a quello bielorusso, fino a oggi.

Le pene di Scholz

Finora, la campionessa di «dialogo» con la Russia è stata Berlino; e il cancelliere Olaf Scholz fa ora i conti con queste «ambiguità strategiche». Interrogato dal Washington Post su come intenda comportarsi la Germania - se contempla o no di far saltare i patti sul gasdotto Nord Stream 2 in caso di invasione russa dell’Ucraina – Scholz risponde che «siamo chiari sulla necessità di una ambiguità strategica». Intende che l’importante è dare il messaggio che i costi per Mosca saranno alti, senza precisare quali.

Le reticenze a far arrivare armi a Kiev, sommate a quelle sul gas, hanno creato perplessità negli Stati Uniti, e l’incontro alla Casa Bianca serve per serrare i ranghi. Ma anche in questo caso, come nel dialogo Parigi-Mosca, i miracoli non si fanno in un giorno: qualche mese fa, Merkel ha respinto la richiesta Usa di inserire una clausola kill-switch (“spegni tutto”) che consentisse lo stop al flusso di gas in caso di mosse aggressive russe. Prima di lei, c’era stato un compagno di partito di Scholz, il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder, a siglare nel settembre 2005 l’accordo con Mosca su Nord Stream 2. Il mese dopo era lui stesso al soldo di Gazprom.

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