Joe Biden in politica estera segue le orme del suo predecessore, Barack Obama, maestro insuperato nel tracciare sulla sabbia linee rosse invalicabili, puntualmente superate senza conseguenze per gli avversari di turno, salvo le consuete sanzioni economiche. Le sanzioni (oltre al Covid-19) finora hanno solo messo a rischio sempre di più la globalizzazione e i commerci mondiali così come li abbiamo conosciuti. “America is back” del multilateralismo di Biden è uno slogan che non sembra spaventare i nemici né convincere gli alleati, sempre più perplessi.

Il rischio di fondo, secondo Gideon Rachman sul Financial Times, è che l’America rischi di fronteggiare tre conflitti contemporaneamente. Un incubo per gli stati maggiori americani che hanno sempre previsto a tavolino un massimo di due fronti da combattere, ma mai tre.

Pessimismo nordico

Eppure l’amministrazione Biden sta affrontando, malamente, tre crisi contemporaneamente: la prima, in Ucraina, con la minaccia russa, riportata dalla Cia, di “possibile invasione ai primi del 2022”; di una nuova tensione in Medio Oriente con il dossier nucleare iraniano ancora in panne e, infine, le ambizioni cinesi su Taiwan con minacce di invasione.

Carl Bild, ex premier svedese e acuto osservatore della politica estera, ha dichiarato nei giorni scorsi che i politici occidentali debbano contemplare la possibilità di un’invasione simultanea di Taiwan e Ucraina. E ha aggiunto che «questi due episodi di conquista modificherebbero l’equilibrio dei poteri nel mondo» così come lo abbiamo conosciuto dalla fine della Guerra fredda.

È il pessimismo di un politico nordico troppo vicino ai confini russi? Forse, ma Bildt è una persona seria e un profondo conoscitore del mondo della diplomazia internazionale, la cui parola è meglio ascoltare attentamente dopo la drammatica e precipitosa ritirata dall’Afghanistan.

Crisi in contemporanea

Il presidente Joe Biden alla South Carolina State University (AP Photo/Meg Kinnard)

L’occidente, a guida Joe Biden, sta affrontando le richieste di riunificazione alla madrepatria di Xi Jinping su Taiwan, il tentativo egemonico dell’Iran sciita sul mondo musulmano e quello russo di porre fine all’estensione della Nato ad est.

Sfide regionali capaci si cambiare l’equilibrio mondiale e che Washington sta provando ad affrontare, puntando le maggiori energie sul quadrante Indo-Pacifico, quello che lo interessa maggiormente rispetto all’Europa e al Medio Oriente. Anzi Washington non vuole proprio sentir parlare di nuove operazioni belliche nel pantano medio-orientale dopo essersi messo alle spalle l’Afghanistan. Eppure se Biden ha già messo in chiaro che non è disposto a mandare truppe in Ucraina, questo atteggiamento prudente potrebbe incoraggiare un atteggiamento cinese più deciso verso Taiwan, dove invece Washington ha detto di essere pronto a schierare truppe. Il tutto mentre i negoziati a Vienna sul nucleare iraniano languono in un nulla di fatto. Dove deciderà di far pesare davvero la sua forza il gigante americano? La minaccia cinese, le provocazioni russe o l’ennesima sfida terzomondista degli Ayatollah iraniani? Obama avrebbe segnato linee rosse ovunque sulle mappe per poi non preoccuparsene davvero. Obama, alla fine, avrebbe minacciato e applicato solo sanzioni economiche e finanziarie.

Ma Obama era il primo presidente afroamericano a cui si perdonava molto proprio perché molti dei padri fondatori degli Stati Uniti ed estensori della Costituzione del 1779 erano stati schiavisti. Il presidente Biden farà come Obama applicando sanzioni verso Mosca e forse, alla fine, anche verso Pechino. L’unica area dove potrebbe decidere di essere più risoluto, dando il via libera a un raid aereo contro i siti atomici, è l’Iran, peraltro già sanzionata dal suo predecessore, Donald Trump.

La Teheran degli ayatollah sembra aver percepito che Biden potrebbe decidere che per lanciare un messaggio al mondo potrebbe scegliere l’opzione meno complessa sul tavolo, quella iraniana.

La svolta iraniana

Ed ecco perché l’Iran e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) hanno concordato mercoledì scorso di sostituire le telecamere di sorveglianza danneggiate nel sito nucleare di Tesa, a ovest di Teheran. Per la Repubblica islamica è stato un suo “gesto di buona volontà”.

La mossa inaspettata è arrivata mercoledì mentre i colloqui sul nucleare iraniano a Vienna stanno scivolando nell’inconcludenza e gli occidentali hanno intensificato le critiche a Teheran. Destinati a rivitalizzare un accordo moribondo dopo l’abbandono degli Stati Uniti nel 2018, questi negoziati sono ripresi il 29 novembre a Vienna tra l’Iran, la Russia, la Germania, la Gran Bretagna, la Francia e la Cina. L’Italia non è presente ai negoziati perché ha deciso ai tempi di non essere della partita per mantenere contatti diretti con Teheran. Un errore voluto dal governo Berlusconi che ancora oggi paghiamo.

Cosa potrebbe accadere in Iran?

Washington non esclude l’opzione militare in nessuno degli scenari descritti, come è consuetudine in questi casi, ma se Washington imboccasse la via delle sanzioni contro Mosca e Pechino in caso di invasione dell’Ucraina e di Taiwan allora sarebbe l’Iran quella che rischia di più dal punto di vista di una reazione in caso di fallimento dei negoziati. L’Iran sostiene che tutte le sanzioni imposte dal 2018 devono essere revocate, mentre gli Stati Uniti vogliono mantenere in vigore alcune sanzioni sui diritti umani e sul "terrorismo" imposte sia da Trump che dal suo successore alla Casa Bianca, Joe Biden. L’amministrazione Biden ha mantenuto la pressione sull’Iran mettendo in atto le sanzioni.

La scorsa settimana gli Stati Uniti hanno imposto nuove sanzioni che hanno spinto i negoziatori iraniani a criticare l’approccio a Vienna.

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha chiesto la fine delle sanzioni unilaterali statunitensi contro l’Iran.

Nel frattempo, Israele, un veemente oppositore dell’accordo nucleare, continua a spingere per un’azione militare contro l’Iran, i cui comandanti militari si sono detti pronti a difendere e a ricambiare ogni potenziale attacco.

La svolta dell’Aiea

Ed ecco perché il 23 novembre il direttore generale dell’Aiea, Mariano Grossi, si è recato a Teheran per cercare di risolvere il problema delle telecamere di sorveglianza, sottolineando che si trattava di «un problema molto, molto importante».

Grossi ha affermato che la mancata sostituzione delle quattro telecamere danneggiate «ha gravemente compromesso la capacità di sorveglianza (delle attività del sito di Tesa), essenziale per un ritorno all’accordo nucleare». Ora Teheran ha accettato il ripristino delle telecamere. Forse sente odore di venti di guerra. In ogni caso è evidente che la minaccia di sanzioni di tipo iraniano a Russia e Cina di Biden potrebbe mettere in soffitta la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta finora.

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