Nelle settimane precedenti la caduta di Kabul, il 15 agosto scorso, e la presa dell’Afghanistan da parte dei talebani, circa 50mila persone hanno lasciato il paese. 30mila sono fuggite verso i paesi limitrofi – Iran, Pakistan, Uzbekistan e Tajikistan – o più lontano, verso la Turchia e l’Unione europea.

Circa 20mila “soggetti vulnerabili” – persone che avevano lavorato con i governi occidentali e Ong internazionali, giornalisti, attivisti e minoranze etniche e religiose – sono stati evacuati dai paesi europei, e ora sono sparsi per l’Europa nel tentativo di ricostruirsi una vita. 

Seguire i loro percorsi significa analizzare il sistema del diritto d’asilo e degli altri sistemi di protezione in Europa, nonché gli ostacoli e le opportunità del loro percorso di integrazione socio-economica nei paesi di asilo. È quello che cerca di fare il Mixed migration centre attraverso il progetto “Non ho avuto altra scelta”, che segue le storie di cinque richiedenti asilo afgani evacuati in Italia – appartenenti a etnie, religioni, generi e fasce d’età diverse – attraverso delle interviste condotte tra ottobre e novembre scorsi, che verranno ripetute altre tre volte nel corso dell’anno. Le storie delle persone intervistate vengono riportate con nomi di fantasia per motivi di incolumità loro e delle loro famiglie. 

Noor: «Bruciano gli Hazara assieme alle loro case»

Noor ha 31 anni, è sciita di etnia hazara, originaria della provincia di Maidan Wardak. Fino al giorno dell’evacuazione viveva a Kabul, dove lavorava per un’organizzazione internazionale. Il 26 agosto 2021 si è imbarcata su un volo italiano insieme a suo marito, portando con sé solo il computer e qualche oggetto personale. «Quello era il mio paese – dice – lì ero una cittadina, non una rifugiata. Ma i talebani sono contro le donne che lavorano, sono contro la libertà, contro le minoranze. Gli Hazara e gli sciiti sono in particolare pericolo. Ci chiamano “Kafar”, miscredenti, non ci considerano musulmani».

«In alcune province i talebani costringono gli Hazara a lasciare le proprie case – continua Noor – E se non lo fanno entro tre notti, le case vengono bruciate con loro dentro». La parte più difficile dell’evacuazione è stata il caos all’aeroporto di Kabul, i gates strapieni, i talebani che urlavano alle persone di tornare a casa.

(AP Photo)

Attualmente Noor e il marito si trovano in un centro di accoglienza a Reggio Emilia, ma lamentano la mancanza di programmi d’integrazione. «Non conosciamo la cultura, non conosciamo le regole e non sappiamo come fare a imparare queste cose». Sa di avere delle opportunità, ma anche che potrebbe non coglierle, visto che non ha i documenti.

Abdul: «L’Italia era la mia unica opzione»

Abdul è un 35enne sunnita, di etnia Tajik. Viene da Mazar e Sharif, una città nel nord-ovest dell’Afghanistan, ma fino all’evacuazione viveva a Kabul, dove si era trasferito a causa delle incerte condizioni di sicurezza e l’alto livello di corruzione all’interno della pubblica amministrazione locale a Mazar. È sposato e ha quattro figli. Ha studiato scienze politiche all’Università e lavorava in un ministero. È arrivato in Italia il 24 agosto e si trova in un campo vicino a Firenze.

Racconta di un paese che per anni ha continuato a vivere sotto la minaccia del ritorno dei talebani. «Tutti sapevano che sarebbero arrivati, o che il paese sarebbe caduto in una guerra civile. C’erano continui attacchi: nel 2008 sono quasi morto per un’esplosione». Mentre il resto del mondo non si aspettava ciò che è accaduto l’agosto scorso, Abdul sì. Tuttavia l’espatrio è stato più precipitoso di quanto avesse previsto.

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Come ex funzionario del governo di Ghani, doveva lasciare il paese il prima possibile, ed è stato costretto a partire senza la famiglia. «L’Italia era la mia unica opzione – racconta – Venire qui non era qualcosa che avevo pianificato. Appena avrò ottenuto il permesso di soggiorno avvierò immediatamente il processo di ricongiungimento». La moglie è un’insegnante, non può lavorare. I figli non vanno più a scuola, la femmina non esce nemmeno più di casa per paura dei talebani.

Ora ha due obiettivi: imparare la lingua italiana e trovare un lavoro. Entrambi finalizzati a permettere che la sua famiglia lasci l’Afghanistan. «La situazione nei campi non è molto buona – lamenta – perché non ci sono sufficienti programmi d’integrazione, e noi in qualche modo perdiamo del tempo utile. La cosa più importante è avere dei corsi di lingua adeguati. Il corso che stiamo seguendo è di sole due sessioni la settimana e la qualità è molto scarsa».

Hussain: «Non so se le mie competenze sono richieste»

Hussain ha 52 anni. È arrivato in Italia il 26 agosto insieme alla moglie e ai due figli. Nel suo paese era un professore universitario, la moglie un’infermiera. Per un periodo della sua vita ha vissuto in Pakistan da rifugiato, per poi tornare in Afghanistan. «Ero molto motivato e speranzoso per il futuro. Più di ogni altra cosa ero felice di poter utilizzare le conoscenze acquisite durante il mio periodo di esilio a favore degli uomini e delle donne del mio paese».

«Vivere in Afghanistan significa vivere nella paura costante. Paura dei kamikaze, paura di essere uccisi in attacchi indiscriminati, paura di essere derubati. Quando esci di casa non sai se tornerai vivo. Ma avevamo imparato a minimizzare i rischi. L’Afghanistan era il mio paese, lì avevo il diritto di lavorare, di ricevere un’istruzione, di spostarmi liberamente. Certo, ho avuto molte difficoltà a causa della mia etnia e della corruzione, ma ne è valsa la pena. Mi sentivo vivo».

(AP Photo/Petros Giannakouris)

Hussain tornerebbe domani, se non ci fossero i talebani. Per ora vive a Reggio Emilia, e non si sente in pericolo, ma sente la preoccupazione di trovare lavoro, e vorrebbe andare altrove, magari in Germania. «Non sono sicuro quanto le mie competenze siano richieste qui – spiega – La situazione di mia moglie è migliore perché abbiamo sentito che c’è un grande bisogno di persone con profili medici in Italia e in Europa, ma sembra che debba superare alcuni esami o seguire alcuni corsi prima di poter trovare lavoro».

Mohammed: «Lascio l’Afghanistan o muoio qui»

Mohammed ha 30 anni, è sunnita di etnia Tajik, nato nella provincia di Kabul, dove lavorava per il governo.  È arrivato in Italia il 19 agosto con sua moglie, e ora sono ospitati in un centro di accoglienza a Villanova, vicino Reggio Emilia. Durante l’infanzia i soldi scarseggiavano. Doveva “lottare” con suo cugino per lo zucchero, e il pranzo per la sua famiglia era un lusso.

«Non c’era accesso alle necessità di base, ma quando si tratta di come vivere nel tuo paese, devi trovare un modo. Così, ci siamo buttati i problemi alle spalle». Nel 2009 hanno tentato di sequestrarlo, è stato coinvolto in diverse esplosioni e attacchi terroristici. Nonostante ciò, non aveva mai preso in considerazione l’idea di lasciare il suo paese.

È cambiato tutto il 15 agosto. «Quella è stata la prima volta nella mia vita in cui mi sono sentito come... come se tutto quello che avevo costruito non ci fosse più. Zero, finito, non è rimasto niente». Il giorno dopo, fuori dall’aeroporto, è stata «la peggiore esperienza» della sua vita. I talebani sparavano sulla folla, lui avrebbe voluto tornare indietro. «Ma mia moglie era pronta a morire. Non aveva alcuna intenzione di tornare indietro. Diceva: “Lascio l’Afghanistan o muoio qui”».

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Ora nel centro d’accoglienza prova un forte senso di frustrazione. «Non ci danno informazioni, sono scortesi – racconta – Noi non vogliamo essere un peso, vogliamo contribuire». Ma per farlo hanno bisogno di programmi d’integrazione, e di imparare la lingua. Nel paese che non voleva lasciare, ora non vuole più tornarci: «Ho chiuso con l’Afghanistan».

Laila: «Essere rifugiato non è facile»

Laila ha 26 anni. È una sunnita di etnia Pashtun. Ha un master in relazioni internazionali e uno in diritti umani. A Kabul lavorava come ricercatrice per un’organizzazione internazionale nel settore della cooperazione allo sviluppo. È arrivata a Roma il 22 agosto insieme alle tre sorelle; una era al nono mese di gravidanza. Hanno provato a entrare in aeroporto due volte, la prima lei è svenuta per la calca: «Sono rimasta bloccata nella folla e ho pensato che sarei morta. Ho iniziato a gridare e sono svenuta». Hanno lasciato il gate, poi la sorella di Laila si è ricordata di un’entrata secondaria.

Laila e le sorelle avevano una macchina, una buona istruzione, erano indipendenti. Ma avere un’istruzione ed essere donna può essere un ostacolo e un peso. «Non dicevamo che lavoravamo per organizzazioni internazionali, perché secondo la società le donne che lo fanno non sono brave ragazze. Avevamo paura di essere discriminate».  

Ora sono a Roma, con il cognato e il padre, anche se in luoghi diversi sparsi per la città. «Psicologicamente non stiamo bene. Soffriamo molto – dice – La vita che avevamo a Kabul, le nostre conquiste, il lavoro che avevamo… potremmo non essere in grado di averla più».

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«So che essere rifugiato non è facile. Lo sono stata quando ero bambina. La gente in Pakistan non ci chiamava per nome, ci chiamava “rifugiati”. A quel tempo non sapevo nemmeno cosa significasse». Spera che in Italia le cose vadano diversamente.

Quasi tutte le persone intervistate avevano già passato periodi della propria vita da esuli, soprattutto in Iran o in Pakistan. Ma avevano deciso di tornare. Non sarebbero volute andare via. Ora il loro giudizio verso il futuro dell’Afghanistan è unanime: «È un paese finito».

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