Cari vecchi brocardi, vittima di una cieca furia iconoclasta, che esprimevano in due parole un concetto giuridico che avrebbe richiesto ore. Come per “par in parem non habet iudicium”, che, a dirlo in italiano, è un po’ più complesso. Si tratta di una regola consuetudinaria del diritto internazionale, dunque di una norma che si è formata per lo stratificarsi di condotte sempre uguali, tanto da essere a un certo punto accompagnata da una spontanea percezione di obbligatorietà: «Si è sempre fatto così», e quindi si deve fare così.

Nello specifico, quella del brocardo è la regola per la quale il giudice di uno stato non può chiamare innanzi a sé un altro stato, per chiedere ragione di un atto da questo compiuto. Sempre che, beninteso, si tratti di un atto compiuto «come stato», iure imperii, col diritto che gli deriva dall’esercizio della propria sovranità, e non invece di un atto compiuto dallo stato quasi fosse un privato qualsiasi, iure gestionis.

Così, ad esempio, semplificando brutalmente, un giudice potrebbe sindacare l’inadempimento contrattuale di uno stato nell’ambito di una relazione commerciale, ma non potrebbe convenire dinanzi a sé uno stato per un atto di natura pubblica – ad esempio, riguardo a controversie relative a lavoratori assunti da quello stato per lo svolgimento di mansioni di governo. Sul piano degli atti compiuti iure imperii, è dunque esclusa la giurisdizione di uno stato straniero, perché, nell’esercizio della propria sovranità politica, la comunità degli stati è una comunità di pari. E, tra pari, non c’è un giudice a Berlino.

Un “papa” per ogni diocesi

Ora, meglio non mettere la mano sul fuoco sul fatto che in Vaticano il latino lo conoscano (ancora) abbastanza bene: lo smarrimento mentre Benedetto XVI annunciava le sue dimissioni, l’11 febbraio 2013, consente qualche dubbio. Ma certamente, al di là del Tevere, che “par in parem non habet iudicium” se lo saranno ricordati quando, nel 2017, alla Corte europea dei diritti dell’uomo è arrivato dal Belgio un ricorso per chiedere se un tribunale nazionale potesse convenire la Santa sede per «il modo strutturalmente deficiente con cui la chiesa ha fatto fronte alla problematica degli abusi sessuali». Il ricorso principiava, in effetti, proprio dalla scelta del giudice belga a riconoscersi incompetente, per quella immunità sovrana di cui sopra, a chiamare innanzi a sé la Santa sede per l’asserita responsabilità indiretta in alcuni fatti di pedofilia verificati o da verificare in alcune diocesi locali. Una incompetenza confermata il 12 ottobre dalla Cedu, quasi all’unanimità, dissenziente solo il giudice albanese.

La tesi del giudice di Strasburgo ha due punti centrali. Il primo è che le colpe dei vescovi non ricadono sul papa, e, dunque, Roma non è responsabile delle condotte colpevoli eventualmente addebitabili ai vescovi a capo delle diocesi coinvolte. Per la Corte, ma già prima per il giudice belga, i vescovi non agiscono infatti da mandatari o esecutori della Santa sede, ma essi esercitano «funzioni amministrative, in cui agiscano in maniera autonoma». Un po’ come dire che, nella sua diocesi, ogni vescovo è papa.

Il secondo punto – che è quello dirimente – è che comunque la Santa sede non potrebbe essere chiamata in giudizio dal giudice nazionale, in quanto essa è stato sovrano al pari di tutti gli altri membri della comunità internazionale, e dunque gode della stessa esclusione dalla giurisdizione straniera per gli atti “politici”, iure imperii, tra i quali rientrerebbero le condotte eventualmente tenute in relazione alla gestione dei casi di pedofilia, presunti o accertati, nel clero. Come rientrerebbero tra gli atti iure imperii quelli compiuti da un qualunque stato riguardo al rapporto – carriera, mansioni, istruzioni, cessazione del rapporto, etc. – con un lavoratore assunto “al suo servizio”.

Eccezioni

Certo, delle eccezioni ci sono. Al netto di alcune un po’ più tecniche, forse la più importante – riconosciuta, peraltro, soltanto in tempi piuttosto recenti – riguarda gli atti compiuti da uno stato che integrino una violazione del divieto di tortura o di trattamenti inumani. Così, ad esempio, proprio un giudice italiano – con l’avallo della Corte costituzionale – ha potuto giudicare e condannare la Germania a risarcire i danni procurati da alcuni fatti (certamente iure imperii) compiuti dalle truppe occupanti in Italia tra il 1943 e il 1945. Ma lì, appunto, si trattava di violazioni dei diritti umani così gravi da costituire crimini internazionali. E la Corte esclude che la circostanza possa ricorrere nel caso della pretesa mala gestio vaticana dei casi di pedofilia.

Ci sarebbe stato spazio per una decisione di segno contrario rispetto a quella recente? Probabilmente sì. Non è sicurissimo, in fondo, che i vescovi davvero siano così autonomi da Roma, o comunque non è sicuro quanto l’autonomia virtuale sia stata – nelle vicende in rilievo – una autonomia reale. Ma questo è un campo in cui l’accertamento è spinoso.

O, ancora, si sarebbe potuto lavorare per far rientrare, magari in via analogica, i fatti contestati – pedofilia, o comunque copertura e agevolazione di essa – in quel novero di atti inumani e degradanti che giustificano l’esclusione dell’immunità. Ma, per far questo, la Corte avrebbe dovuto farsi carico di una decisione in parte innovatrice, forse quasi finalisticamente orientata. Insomma, forse una decisione diversa poteva esserci, ma con onestà intellettuale non si può dire che quella presa ieri non sia una sentenza adeguatamente argomentata e giuridicamente fondata.

La Santa sede può dunque tirare, almeno per ora, un sospiro di sollievo. E non solo la Santa sede, in realtà: quando si parla di immunità degli stati – e questo i giudici di Strasburgo lo sanno bene – si parla di un tema su cui nessuno stato ha tanto piacere a cedere, e qui non conta se sei clericale o no.

 

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