Per la prima volta un petroliere presiederà la più importante conferenza mondiale sul cambiamento climatico.  Ahmed Al Jaber, l’amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company (Adnoc), dodicesima compagnia petrolifera al mondo, è stato ufficialmente investito dell’incarico di presidente della Cop 28.

Il paese ospitante, gli Emirati Arabi, ha scelto di affidare a lui la presidenza, e quindi anche la responsabilità e la gestione di tutti i cruciali colloqui preparatori alla conferenza di dicembre,

Che Al Jaber sia anche il ministro dell’Industria degli Emirati, il loro inviato sul clima e il presidente della compagnia statale per le energie rinnovabili, di cui Adnoc è azionista, non è sufficiente a giustificare la scelta. Anzi la sua doppia veste può solo rafforzare le critiche nei confronti della scelta degli Emirati come paese ospitante, e del ruolo che giocano le economie fondate sulla produzione di combustibili fossili nel dibattito sulle modalità con cui affrontare una transizione necessaria e che ormai nessuno mette formalmente in discussione.

Cinque milioni di barili

Gli Emirati stanno investendo nella produzione di rinnovabili e sono stati il primo paese arabo a fissare un obiettivo di emissioni zero al 2050, ma il 30 per cento del loro Pil e il 13 per cento delle loro esportazioni è basato direttamente sull’industria del petrolio e del gas. Su quei profitti, spiega il sito dell’ambasciata emiratina negli Stati Uniti, il paese continua «a fare molto affidamento» anche perché forniscono la grande maggioranza delle entrate del governo. Di più gli Emirati producono oggi «una media di 3,2 milioni di barili di petrolio e liquidi al giorno», ma la compagnia petrolifera nazionale guidata dal neo presidente della Cop28 «si aspetta di raggiungere i cinque milioni di barili di massima produzione sostenibile entro il 2030».

La transizione, insomma, passa da un aumento della produzione petrolifera e il principio del documento strategico al 2050 è molto chiaro: «Gli Emirati sono pragmatici a proposito del presente perché anche nello scenario più rapido di transizione energetica il mondo avrà bisogno di petrolio e gas nel prossimo futuro». Già solo questo approccio è problematico, per usare un eufemismo, in vista della conferenza sul clima, ma mai nessuno aveva osato finora mettere a presiederla l’amministratore delegato di un colosso globale del petrolio.

Fine dell’ipocrisia

Climate Action international ha chiesto che al Jaber lasci l’incarico nella società. I Fridays for future hanno definito la scelta «folle». Rivelatrice della poca serietà con cui si affronta l’emergenza. Si tratta, però, anche della fine di una ipocrisia, di un disvelamento dei limiti che le ultime conferenze delle Nazioni Unite sul clima avevano già ampiamente mostrato. «Già alla Cop26 di Glasgow da cui siamo usciti molto delusi, la delegazione più numerosa era di un’organizzazione legata al settore del petrolio e del gas», dice Laura Vallaro, una dei portavoce del movimento. «In totale i delegati del comparto degli idrocarburi erano 500 a Glasgow, alla Cop27 in Egitto erano oltre 600 e la conferenza si è chiusa senza un accordo sulla riduzione delle emissioni e della produzione petrolifera, praticamente hanno gettato la spugna».

Il movimento internazionale dei Fridays probabilmente ripeterà la scelta dell’anno passato: destinare gli accrediti alla conferenza agli attivisti dei paesi del sud del mondo più minacciati dalla crisi climatica. «La consapevolezza, però, è che bisogna fare molto di più nei nostri paesi», dice Vallaro. «Il 3 marzo ci sarà il prossimo sciopero globale del clima, perché non è con un vertice che si raggiungono risultati».

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