Nel 2023 si ricorderà il centesimo anniversario della pubblicazione di Paneuropa, il libro-manifesto in cui il conte Richard Coudenhove-Kalergi propugnava l’unione degli stati europei come unica possibilità per evitare un’altra guerra mondiale. L’Europa era uscita sconfitta, dissanguata e spopolata da quella appena conclusa, a rischio, scriveva Coudenhove, di finire divorata dalle «potenze mondiali extraeuropee in piena crescita», cioè gli Stati Uniti e la Russia. «I singoli stati– spiegava – sono diventati troppo piccoli per mantenere in futuro un’esistenza indipendente… Se l’Europa si rifiuta di seguire (la strada dell’unità), i suoi stati andranno in rovina come piccoli pizzicagnoli che volessero, da soli, entrare in concorrenza con i grandi complessi industriali».

Se qualcuno, nel 2023, si ricorderà di Coudenhove-Kalergi, lo farà verosimilmente per constatare con amarezza che, cent’anni più tardi, l’Europa è ancora allo stadio dei pizzicagnoli. L’analisi geopolitica permette di fornire accurate spiegazioni del perché, ma, per farlo coscienziosamente, bisognerebbe risalire almeno al Trattato di Verdun, dell’anno 843, che sancì la tripartizione dell’impero carolingio: da allora, per undici secoli, i franchi dell’est e i franchi dell’ovest si sono combattuti ferocemente per conquistare i franchi di mezzo – la Lotaringia, che racchiudeva la maggior parte delle risorse del continente, all’epoca «povero, esiguo, arretrato e monocromatico» (Bernard Lewis).

Undici secoli di quella che è stata definita la «guerra civile europea», di fronte ai quali gli ultimi settantasette anni possono legittimamente sembrare un corto armistizio: ma un armistizio durante il quale i singoli paesi hanno continuato a comportarsi da pizzicagnoli, nonostante la loro manifesta volontà di mettersi, una volta per tutte, sulla strada indicata da Coudenhove-Kalergi.

Un’astrazione

Parlare di Europa è, oggi, un’astrazione, a cui non corrisponde la mera somma aritmetica di 27 paesi, ciascuno con i propri interessi, la propria storia, i propri vizi e le proprie virtù, ciascuno diviso a sua volta al proprio interno da interessi, storie, vizi e virtù diversi e spesso incomponibili. Al di là della necessità di sopravvivenza, non esiste un interesse comune dell’Unione europea, né una visione concorde del mondo; l’assenza di obiettivi condivisi fa sì che la cosiddetta politica estera europea resti una chimera, e, a maggior ragione, un ipotetico esercito europeo, che di quella politica estera dovrebbe essere il garante in armi.

Le linee di faglia che attraversano il Vecchio continente non riguardano solo il rapporto con il resto del mondo (su cui torneremo), ma anche le questioni del debito e della crisi demografica. La prima si può riassumere così: l’Ue è divisa tra paesi virtuosi e paesi scialacquatori, con i secondi che contano sui primi per continuare a scialacquare. Secondo Eurostat, nel 2021 sette paesi (Grecia, Italia, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio e Cipro) erano indebitati più della media europea (o molto di più, come la Grecia, più del doppio, o l’Italia, quasi il doppio), e quattordici superavano la soglia del 60 per cento in rapporto al Pil, che sarebbe – teoricamente – il limite massimo consentito dal Trattato di Maastricht.

Secondo alcuni osservatori, il principale obiettivo del Trattato del Quirinale tra Francia e Italia del novembre 2021 era proprio di rafforzare il fronte dei prodighi contro quello dei frugali. Ma fino a quando i frugali (e soprattutto gli elettori di quei paesi) tollereranno di dover pagare per quelli che non sanno (e non vogliono) tenere i propri conti sotto controllo? E quanto peserà sugli elettori dei paesi prodighi l’inevitabile geremiade sull’egoismo dei paesi virtuosi? E fino a quando le cambiali non arriveranno a scadenza?

La seconda linea di faglia riguarda, anche se indirettamente, la crisi demografica. L’Europa è il continente più vecchio: nel 2020, tra i quindici paesi con l’età mediana più alta del mondo, tredici erano europei, la Germania al secondo posto dopo il Giappone, e l’Italia al terzo. Il tasso di fecondità europeo era di 1,5 figli per donna (in Italia 1,29), cioè molto meno della semplice soglia di rimpiazzo, che è, convenzionalmente, di 2,1 figli per donna.

La prima conseguenza è che ci sono sempre meno persone in età lavorativa; la rete di media Euractiv riportava (14 settembre 2022) che, nella sola Ue, sono vacanti circa sei milioni di posti di lavoro: in Francia, metà delle imprese soffre di carenza di manodopera; in Germania è in questa situazione l’87 per cento delle imprese familiari; in Polonia non si trovano muratori, mentre Romania, Bulgaria e Albania lamentano una fuga di cervelli che si apparenta a un esodo. E così via.

La seconda conseguenza è che un numero calante di persone in età lavorativa sarà chiamato a lavorare sempre più per un numero crescente di pensionati: il che potrà portare alla rottura del compromesso generazionale, cioè a quel fenomeno sociale che gli americani hanno battezzato ageism, e che può arrivare (come peraltro è già successo, in particolare durante l’epidemia di Covid) fino alla richiesta da parte dei più giovani di ridurre le prestazioni sociali – comprese, e soprattutto, quelle mediche – per le persone anziane.

La crisi demografica, si diceva, è solo indirettamente una linea di faglia, perché tutti i paesi europei stanno perdendo lavoratori e aggravando il loro indice di dipendenza, cioè il rapporto tra attivi ed ex attivi: persino in Francia, il paese col più alto tasso di fecondità (1,8), nel 2006 c’erano 2,5 persone in età lavorativa per ogni persona di più di 60 anni, ma nel 2019 quel rapporto era sceso a 1,86:1, e il Conseil d’orientation des retraites prevedeva un rapporto di 1,3:1 entro il 2070.

La linea di faglia, dunque non è nella crisi in sé, anche se, tra i paesi europei, c’è chi sta peggio e c’è chi sta meno peggio; e non è nemmeno nell’unanime rifiuto dell’unica soluzione, ancorché parziale e temporanea, a portata di mano, e cioè l’immigrazione. La linea di faglia è tra chi riceve il primo impatto delle ondate di immigrati e chi ne è distante, come il caso dell’Ocean Viking ha recentemente dimostrato: su questo si gioca un altro scontro a suon di reciproche accuse di egoismo nazionalistico (peraltro giustificate su entrambi i fronti) con cui vellicare le paure e le aspettative dell’elettorato, come nel caso del debito pubblico.

Estinzione

Nel campo della geologia, l’individuazione delle faglie permette di valutare la pericolosità sismica di una regione; nel campo della politica, le cose non sono molto dissimili. La crisi demografica, se non è affrontata coraggiosamente ed energicamente, porterà all’estinzione pura e semplice del continente europeo; in prospettiva, quindi, è la crisi più grave, letteralmente esistenziale. Ma è una delle poche questioni su cui i paesi europei sono concordi, seppur per le ragioni sbagliate, cioè nel rifiuto di affrontarla; le crisi provocate dall’arrivo degli immigrati possono essere ricomposte, se non altro sulla base di una condivisa xenofobia.

Le diatribe sull’indebitamento tra paesi frugali e paesi spendaccioni, invece, su cui non sembra esserci terreno di intesa, promettono di portare presto o tardi le popolazioni degli uni e degli altri a tirarsi addosso da opposte barricate elettorali. Tuttavia, la faglia più pericolosa, potenzialmente in grado di provocare un terremoto dalle conseguenze imprevedibili, resta quella del rapporto con gli attori esterni all’Unione europea, cioè la politica estera.

Si è sempre saputo che l’Ue ha ventisette politiche estere, anche se la cosa è stata mascherata dietro una struttura chiamata «politica estera e di sicurezza comune» – più un auspicio perso nel brumoso futuro che una realtà. Insomma, i singoli pizzicagnoli hanno continuato a perseguire i loro singoli interessi, hanno continuato a viaggiare sulle collaudate piste delle loro politiche tradizionali, delle loro complicità internazionali, delle loro ambizioni e delle loro fobie.

Il compito dell’Alto rappresentante «per gli affari esteri e la politica di sicurezza» consiste più nel trovare compromessi lessicali e grammaticali sulla formulazione dei comunicati che sulle azioni da intraprendere. Più che l’Alto rappresentante, però, chi ha tenuto insieme bene o male i pezzi del mosaico è stato, finora, l’asse franco-tedesco, cioè il tacito do ut des tra Parigi e Berlino grazie al quale la Francia assecondava parte degli interessi tedeschi e la Germania assecondava parte degli interessi francesi, a condizione che nessuno ledesse gli interessi dell’altro.

Il do ut des, ovviamente, è più un perenne compromesso in fieri che una politica estera comune, tanto più che entrambe le capitali hanno sempre privilegiato il des al do, cioè hanno sempre preferito farsi assecondare che assecondare. Ciononostante, la complicità franco-tedesca è stata spesso sufficiente per trascinare gli altri paesi dell’Ue, benché recalcitranti: non solo perché, insieme, Francia e Germania contano per il 42 per cento del Pil dell’Ue (25 per cento la Germania e 17 per cento la Francia, dati Eurostat 2020), ma anche perché senza di loro l’Ue semplicemente non esisterebbe. Gli altri 25, pur trascinando i piedi e approfittando di ogni occasione per cercare di piantare un cuneo tra Parigi e Berlino e inasprirne i dissidi (vedasi, appunto, il Trattato del Quirinale), se vogliono approfittare dei benefici dell’appartenenza comune, finivano bene o male per seguire.

Declino americano

Negli ultimi anni, la convergenza tra Francia e Germania si è addirittura accentuata, non tanto per la scoperta di interessi comuni quanto per il declino della credibilità americana: il disastro in Iraq, i quattro anni di presidenza Trump e la precipitosa fuga da Kabul hanno annacquato il tradizionale tropismo atlantico de Berlino, avvicinando la Germania al tradizionale tropismo anti-americano di Parigi, senza purtuttavia aderirvi. Si va dal riconoscimento pubblico di Merkel che «i tempi in cui potevamo affidarci completamente a qualcun altro sono finiti», del maggio 2017, alla dichiarazione di «morte cerebrale» della Nato di Macron nel novembre 2019; nessuno dei due aveva aspettato l’inglorioso ritiro dall’Afghanistan che, però, dava ragione ad entrambi.

Dal 24 febbraio, però, le cose sono cambiate. Secondo l’analista geopolitico americano George Friedman, la Russia avrebbe deciso di attaccare l’Ucraina il 24 febbraio perché contava sullo stato confusionale americano e sulla divisione dell’Europa, in particolare sul cedimento tedesco; Mosca si è sbagliata su entrambi i fronti, afferma Friedman, e ora ne paga le conseguenze. Se l’ipotesi di Friedman fosse corretta, sarebbe piuttosto l’indizio di uno stato confusionale russo: al Cremlino non si può non sapere che, almeno dal 1918, gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per impedire un avvicinamento o, peggio, un possibile congiungimento di forze tra il Vecchio continente (leggasi Germania) e la Russia; a meno che Mosca non sperasse che un cedimento tedesco avrebbe spinto gli americani ad abbandonare una volta per tutte l’Europa al proprio destino e a concentrarsi sulla Cina. Ma anche in questo caso il calcolo sarebbe stato irragionevole: se i russi non avessero incontrato nessuna reazione americana o europea (a parte le condanne di rito e qualche sanzione), anche la Cina sarebbe uscita rafforzata.

Secondo Friedman, la ragione per cui i tedeschi hanno invece reagito con decisione, sospendendo il progetto Nord Stream 2 ancor prima dell’invasione, sarebbe che sui piatti della bilancia c’erano da una parte le forniture energetiche russe – che, sostiene Friedman, possono essere rimpiazzate, benché a caro prezzo, anche dagli Stati Uniti – e dall’altra il mercato di esportazione americano, il più importante in assoluto per i prodotti tedeschi, che, invece, non può essere rimpiazzato, soprattutto non dalla Russia che conta, nella bilancia commerciale tedesca, meno dell’Ungheria.

Non è detto che questa alternativa sia stata la ragione principale della scelta di Berlino. È probabile che abbiano pesato anche altre considerazioni, prima fra tutte quella di non rischiare di nuovo un isolamento come nel 2003 quando, di fronte alla guerra americana in Iraq, la Germania si ritrovò sola, con Parigi e, guarda caso, Mosca, separata dai suoi maggiori partner europei e da tutta l’Europa centrale e orientale, sua tradizionale sfera di influenza, in procinto di entrare nell’Unione europea. Anche se a Parigi c’è chi pensa – con sospetto e dispetto – che Berlino abbia agito per tropismo atlantico, è più probabile che, nella mente dei dirigenti tedeschi, il rapporto con le capitali europee centro-orientali, in gran parte confinanti con l’Ucraina, sia venuto prima del mercato di esportazione americano. Senza contare che, per la Germania, le esportazioni in Cina contano ormai quasi quanto quelle negli Stati Uniti (rispettivamente il 7,7 per cento e il 9 per cento del totale).

Spostamento a nord-est

Il paradosso è che Parigi si è innervosita con Berlino benché le due capitali abbiano reagito all’invasione russa in modo molto simile, benché condividano la necessità di mantenere canali aperti con Mosca, e benché mal sopportino entrambe la pressione di Washington per allontanarle da Pechino.

La ragione principale del nervosismo di Parigi dev’essere verosimilmente cercata nella mancanza di coordinamento con Berlino, il cui esempio più clamoroso è stata la decisione di Scholz di andare in visita in Cina da solo e non in compagnia di Macron, come il presidente francese avrebbe voluto. Qui è in gioco un altro tropismo, quasi un riflesso pavloviano: ogni qual volta la Germania agisce da sola, senza consultare la Francia, a Parigi scatta il sospetto, se non l’allarme. A maggior ragione in un momento come questo, in cui la Francia ha perso l’iniziativa politica sull’Europa, messa nell’angolo dall’immediata reazione americana all’aggressione russa, e in cui il baricentro europeo si è spostato verso nord-est, un’area non solo ultra atlantista ma di tradizionale interesse della Germania.

Non dimentichiamo che l’allargamento del 2004 – con l’ingresso nell’Ue di otto paesi dell’area di influenza tedesca (Polonia, Lituania, Lettonia, Estonia, Rep. Ceca, Slovacchia, Ungheria e Slovenia) contro due mediterranei (Malta e Cipro) – era stato vissuto con malcelata insofferenza a Parigi, al punto di diventare, secondo alcuni, uno dei fattori della vittoria del «no» alla Costituzione europea nel referendum francese dell’anno dopo.

Da ultimo, non è affatto sicuro che a Berlino le sempre più frequenti sortite protezioniste francesi siano viste con favore. Sia il presidente Macron che il suo ministro dell’Economia Bruno Le Maire hanno recentemente affermato a più riprese che l’Europa «non può restare a guardare» mentre gli Stati Uniti e la Cina prendono misure protezioniste.

Lo spunto, questa volta, e venuto dall’Inflation Reduction Act, approvato dal Congresso lo scorso agosto: la legge prevede sovvenzioni all’industria americana che, secondo i francesi, taglierebbero fuori i prodotti europei. Insomma, Parigi sarebbe favorevole al dente per dente, mentre Berlino ha già troppi grattacapi per imbarcarsi anche in una guerra commerciale con Washington, a maggior ragione sapendo che i guerrafondai sono i francesi, che esportano negli Stati Uniti meno di un terzo della Germania e investono quasi due volte di meno.

Nel momento in cui la Cina si dichiara «potenza soddisfatta», e proclama il suo attaccamento all’ordine globale, al libero mercato e alla «globalizzazione inclusiva», le ragioni per cui Scholz non ha voluto farsi accompagnare a Pechino da Macron appaiono più chiare. Tra l’altro, una guerra commerciale con gli Stati Uniti farebbe venir meno quella che, secondo Friedman, sarebbe stata la ragione principale del fermo atteggiamento di Berlino nei confronti dell’invasione russa dell’Ucraina.

La famosa frase di Jean Monnet secondo cui «l’Europa sarà forgiata nelle crisi, e sarà la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi», è stata spesso usata da leader e commentatori europei come mantra, una sorta di talismano o portafortuna. È vero che talvolta, nel passato, le cose sono andate proprio come sperava Monnet, in particolare, recentemente, in occasione del varo del piano Next Generation Eu; ma finché gli Stati europei, a cominciare dai due più importanti, continueranno a comportarsi da pizzicagnoli, nessuna formula magica sarà efficace. E il centesimo anniversario di Coudenhove-Kalergi resterà solo un’occasione di rimpianti e recriminazioni.  

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