La ciliegina sulla torta con la quale Pechino ha celebrato la «pietra miliare epocale» nelle relazioni con i paesi arabi è arrivata venerdì sera, nell’ultimo dei tre giorni della visita di Xi Jinping a Riad, con l’invito rivolto alle nazioni del Golfo a utilizzare lo yuan, anziché il dollaro, nelle transazioni tra i maggiori esportatori di materie prime energetiche e gas naturale e il principale consumatore del pianeta.

«La Cina continuerà ad acquistare grandi quantità di petrolio greggio dai paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), a espandere le importazioni di gas naturale liquefatto, a rafforzare la cooperazione nello sviluppo di petrolio e gas a monte, nei servizi di ingegneria, stoccaggio, trasporto e raffinazione e a sfruttare appieno la Shanghai Petroleum and National Gas Exchange come piattaforma per effettuare in yuan i pagamenti relativi al commercio di petrolio e gas», ha dichiarato Xi.

Il presidente cinese ha aggiunto che con il Ccg la Cina intende «avviare una cooperazione normativa finanziaria, facilitare alle imprese del Golfo l’ingresso nel mercato dei capitali cinese, stabilire un’agenzia di investimento congiunta, sostenere i fondi sovrani di entrambe le parti».

L’impiego della valuta con l’effige di Mao in luogo del biglietto verde negli scambi energetici tra Cina e paesi arabi rafforzerebbe lo yuan e indebolirebbe il dollaro nel commercio internazionale.

Un terremoto che i sauditi hanno già minacciato d’innescare in risposta alla “No Oil Producing and Exporting Cartels” (Nopec), la legge che – se approvata – permetterebbe d’intentare azioni legali antitrust negli Stati Uniti contro il cartello dei produttori Opec+.

I petrodollari dei Saud

I Saud non hanno risposto alla proposta di Xi, col quale Mohammed bin Salman ha sottoscritto 34 nuovi accordi energetici e d’investimento.

Una fonte saudita ha rivelato a Reuters che vendere piccole quantità di petrolio in yuan alla Cina potrebbe avere senso per pagare direttamente le importazioni cinesi, ma ha precisato che «non è ancora il momento giusto».

La maggior parte delle riserve dell’Arabia Saudita è in dollari, inclusi oltre 120 miliardi di titoli del Tesoro Usa, e il riyal, come altre monete del Golfo, è ancorato al dollaro.

L’energia ha rappresentato la parte più rilevante della sfilza di contratti e protocolli d’intesa che Xi ha siglato durante il vertice tra la Cina e la Lega araba e quello tra la Cina e il Ccg, entrambi all’esordio. Dopo che l’occidente le ha chiuso parzialmente le porte, anche questi due summit hanno confermato che, per il suo futuro, la Cina scommette sul global south.

La saudita Acwa Powers ha raggiunto intese (per complessivi 1,5 miliardi di dollari) con banche e aziende di stato cinesi per il finanziamento, gli investimenti e la costruzione dei progetti globali di energia pulita e rinnovabile in Arabia Saudita e nei paesi della nuova via della Seta. Saudi Aramco e Shandong Energy Group hanno firmato un memorandum of understanding per collaborare alla raffinazione del petrolio e alle opportunità petrolchimiche in Cina. Nel comunicato stampa di Aramco si parla di anche di collaborazioni su energie rinnovabili e idrogeno.

La strategia di Pechino

Il valore di questi patti è duplice, economico e politico. Per i paesi arabi si tratta, da un lato, di approfittare dell’offerta delle aziende di stato cinesi per sviluppare il settore delle rinnovabili e, dall’altro, di emanciparsi, avvicinandosi alla Cina, dalla dipendenza dagli Usa. «Non lo consideriamo un gioco a somma zero – ha spiegato il ministro degli Esteri saudita Faisal bin Farhan Al Saud – Non vogliamo schierarci da una parte né dall’altra».

La strategia di Pechino mira, da una parte, a garantire – attraverso forniture di lungo termine – l’afflusso costante e la stabilità dei prezzi di oro nero e gas naturale per sostenere lo sviluppo della sua economia e, dall’altra, a rafforzare a livello regionale la sua visione di un multipolarismo che mette davanti a tutto la sovranità statale senza limiti e un’interpretazione altrettanto fondamentalista del principio di non ingerenza.

In un medio oriente in cui negli ultimi decenni gli Stati Uniti sono diventati sempre più impopolari e dal quale si stanno parzialmente disimpegnando l’offerta cinese incrocia la domanda di regimi (dai generali egiziani, alle petromonarchie, passando per il siriano Assad e il raìs palestinese Abbas) che vedono nella Cina un’opportunità di sviluppo economico che li metta al riparo da nuove primavere arabe.

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