Vendere o non vendere, questo è il dilemma per la Rai. Cedere Rai Way per fare cassa e magari poi investire nel processo di digitalizzazione di cui l’azienda avrebbe bisogno? Oppure tenersi tutto per scongiurare l’ennesimo braccio di ferro aziendale con la consapevolezza però che più passa il tempo e più rischiano di deprezzarsi le 2.300 torri di trasmissione del segnale che da decenni sui cucuzzoli fanno parte del panorama italiano?

Il valore di Borsa di quegli impianti al momento è molto elevato: un miliardo e 300 milioni di euro, ma la Rai che detiene il 65 per cento della società non può scendere per legge sotto il 51 per cento.

Ci vorrebbe un’altra legge per autorizzare l’operazione, cioè per privatizzare, e questo ovviamente scalda gli animi lasciando presagire che un’altra baruffa è in incubazione alla Rai. L’amministratore delegato non ha ancora parlato e dietro le quinte si è acceso uno scontro sordo tra favorevoli e contrari.

I primi restano fermi, consapevoli che una parola in più o in meno può pregiudicare l’operazione ancor prima della nascita. Ma anche i secondi esitano perché di ufficiale non c’è nulla, anche se i segnali si moltiplicano e le manovre sono in pieno svolgimento.

Il contratto bloccato

Il tentativo di vendere Rai Way è una costante della storia Rai. All’inizio del Duemila l’americana Crown Castle per l’acquisto delle torri aveva consegnato nelle mani dei dirigenti Rai del tempo un assegno di 800 milioni di euro.

Subito dopo, però, il centrodestra ha vinto le elezioni, a palazzo Chigi è arrivato Silvio Berlusconi e tutto è andato in fumo. Anche lui era proprietario di una rete di torri di trasmissione e per motivi suoi non voleva che la Rai vendesse, il ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri si era messo di traverso e aveva bloccato tutto.

La vendita di Rai Way è tornata d’attualità ai tempi del governo di Matteo Renzi che nel 2015, alla ricerca nel 2015 di quattrini dalle società pubbliche per rimpannucciare i conti statali, aveva chiesto alla Rai un contributo di 150 milioni di euro.

Direttore aziendale era Luigi Gubitosi che aveva risposto all’appello quotando in Borsa Raiway mentre il governo imponeva per legge che la Rai non dovesse scendere sotto il 51 per cento del capitale. I soldi sono stati incassati, la Rai ha tenuto il 65 per cento mentre il resto è diventato flottante, come si dice in gergo.

L’evasivo Fuortes

L’ipotesi di un’ulteriore vendita di Rai Way ha rifatto capolino nell’autunno dell’anno passato. In uno dei primi incontri tra i sindacati e Fuortes, Piero Pellegrino, il segretario dello Snater, il sindacato più forte tra i dipendenti Rai non giornalisti, si è rivolto all’amministratore con una domanda precisa.

Lo Snater è da sempre contrario alla vendita di Rai Way e Pellegrino avrebbe voluto mettere subito le cose in chiaro. La risposta dell’amministratore è stata però evasiva. Fuortes ha constatato che il valore attuale delle torri potrebbe scemare con l’andar del tempo a causa dell’evoluzione tecnologica.

Stessa scena il 22 febbraio di quest’anno: in consiglio di amministrazione alcuni consiglieri hanno ribadito la domanda all’amministratore e la risposta è stata pressappoco la stessa. Nel frattempo è stata fatta circolare una lettera di azionisti Rai Way con il 20 per cento (Amber Capital, Amp, Kairos) diretta a Mario Draghi, alcuni ministri e ai dirigenti Rai in cui, prendendo spunto dalle voci circolate,sollecitano la vendita ed esprimono apprezzamento per l’ipotesi che il governo vari un decreto per togliere il vincolo del 51 per cento in mano alla Rai.

Vendere per investire?

Il dossier è sul tavolo di Fuortes, il quale per il momento preferisce restare alla finestra, anche se per lui parlano gli atti, che però devono essere decrittati. Nelle premesse delle linee guida per la preparazione del piano industriale Rai non si menziona Rai Way, ma c’è scritto: «Tenendo conto dell’evoluzione del mercato dei media e delle richieste sempre più impegnative derivanti dallo svolgimento del ruolo di servizio pubblico (contratto di servizio), la definizione dell’effettivo perimetro di risorse disponibile sarà un elemento dirimente nella definizione del futuro piano industriale 2022-2024».

E più avanti: ogni scelta «sarà condizionata in modo determinante dalla possibilità di accedere a risorse finanziare coerenti». La conseguenza quasi obbligata di questa impostazione è che se la Rai vuole stare al passo con i tempi deve investire, ma per farlo ci vogliono risorse certe e dal momento che canone e pubblicità non bastano, restano gli eventuali risparmi, gli immobili e Rai Way.

Ma siccome i risparmi sono collegati alla creazione di un’unica redazione che è di là da venire mentre la vendita degli immobili richiede tempi non brucianti, Rai Way è la soluzione a portata di mano. In altre circostanze e informalmente Fuortes ha fatto capire di non considerare le torri un core business, cioè un bene essenziale.

Contrarissimo alla vendita, il segretario della commissione parlamentare di Vigilanza Rai, il renziano Michele Anzaldi, ha chiesto chiarimenti al capo del governo con un’interrogazione avvertendo che la cessione di Rai Way «priverebbe la collettività del controllo delle torri di trasmissione della tv pubblica».

Vigile e tendenzialmente contrario anche il sindacato dei giornalisti Usigrai. E contrario il sindacato Snater che teme per la sorte dei 560 dipendenti di Rai Way. Le trattative per il contratto aziendale sono ferme proprio su Rai Way: Snater vorrebbe fossero introdotte clausole di salvaguardia per i dipendenti in caso di vendita, la Rai nicchia. Non siamo allo scontro, ma poco ci manca.

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