La più grande costruzione istituzionale, politica, sociale ed economica degli ultimi cinquemila anni dell’essere umano sul pianeta Terra. L’Unione europea un progetto, un ideale, un sogno, una speranza, una costruzione, una sfida, tutto questo e altro insieme. Ma soprattutto un caso unico nella storia umana, la sola volta in cui degli Stati sovrani decidono, liberamente, di con-cedere sovranità a una istituzione sovranazionale. A condividere materie di governo per secoli appannaggio nazionale.

La moneta, la spada, la bilancia. Paesi che rendono reale l’imponderabile, la compartizione di ambiti ontologicamente connessi alla essenza stessa dello Stato/nazione. Il controllo dei confini, la giurisdizione su di essi, “batter moneta”, ossia controllare una banca centrale nazionale e una propria divisa, una valuta simbolo della ricchezza di ciascuna capitale. E, infine, la forza, l’esercito, e l’uso stesso delle armi.

Passaggi che hanno registrato un andamento differenziato per paese e soprattutto per materia. L’accelerazione sul versante economico (e in parte finanziario) è stata decisamente meno rapida in ambito militare, e non completa in termini di legislazione.

Il punto centrale rimane l’Unione. Per la prima volta governi, parlamenti, in rappresentanza di stati e popolazioni hanno messo insieme le loro forze. Senza pressioni, senza imposizioni militari.

Senza guerra. Dapprima sei, poi sino a dodici, e infine quasi trenta paesi, in passato divisi da molto e separati da tutto, hanno iniziato a mettere insieme ciò che aveva generato, o forse giustificato, la guerra. Prima dell’Europa altri progetti hanno visto l’espansione territoriale, l’unione di stati, territori, nazioni, popoli. La storia è densa, zeppa, di costruzioni di imperi, stati unificanti, progetti di pangenesi, annessioni, concessioni.

Europa e Stati Uniti d’America

La più longeva democrazia ancora vivente, gli Stati Uniti d’America, rappresenta il caso più vicino a quello dell’Unione europea. La costruzione di un nuovo paese – the first new nation, come la definì Seymour Lipset – ha rappresentato un’innovazione sul piano politico, istituzionale e governativo, e ovviamente costituzionale.

Altri casi, miriade, nella storia, dalla Russia alla Cina, dall’Impero Romano ad Alessandro Magno, re, imperatori, condottieri piccoli e grandi, hanno esteso il proprio dominio, hanno tentato di espandere le proprie conquiste. Ma lo hanno fatto sulla punta delle lance, infliggendo ferite e imponendo dazio a popoli soggiogati, sottomessi, dominati, assimilati. E in ogni caso c’erano diversità di territori conquistati, tra stati, tribù, clan, colonie, fazioni.

In questa dinamica di conquista rientrano evidentemente le esperienze non democratiche. Il fascismo in Italia, il progetto pangermanico dei nazisti, l’ideologia internazionalista dei comunisti sovietici, tra gli altri, sono alcuni casi esemplari del Novecento; con code di progetti di invasioni, annessioni e conquiste che si sono protratte fino al XXII secolo, non ultima la guerra mossa dalla Russia all’Ucraina.

La storia dell’Europa è pregna di conflitto, dai piccoli castelli ai grandi imperi, dalle battaglie secondarie alle guerre campali. Cavalieri, fanti, dame, popolo affamato per soddisfare la brama di possesso, gli orizzonti bellicisti e le smanie di conquista.

Sul suolo europeo, ancora prima della “scoperta” delle Americhe, migravano eserciti, le malattie mietevano morti, e la fame e le carestie disegnavano strategie e amputavano orizzonti di potenza. La competizione per le risorse naturali era serrata, spietata, al fine di conquistare porzioni di terra. La carneficina permanente è stato il tratto dominante della vicenda continentale europea. Insieme alle conquiste, alle innovazioni, alle invenzioni, le scoperte, la cultura, le arti, certamente.

Ma sempre all’ombra, in compagnia di sorella morte, delle dotte disquisizioni sull’arte della guerra, sul mito del soldato. Un passaggio lungo, doloroso, incerto, un arabesco di tappe che hanno condotto l’Europa dalla torba, dalla fuliggine del carbone e dai conflitti per produrne acciaio per munizioni e armamenti, fino ai Diritti dell’essere umano, al luogo più sicuro al mondo.

Stati nazionali uniti

Il caso dell’Europa è diverso da quelli di aggregazione stati avvenuti nella storia umana. Si è trattato dell’unione, volontaria, pacifica di stati consolidati, sovrani. Non si è trattato però di un miracolo, di un caso, di un “incidente della storia” – come ricordato da David Sassoli -, ma di una strategica volontà politica preparata, ideata, immaginata e realizzata “passo dopo passo”, con scelte, discussioni, decisioni, avanzamenti, arretramenti, ripensamenti, ma nel complesso di una mai abiurata visione di un disegno sociale, politico ed economico di unione.

Il sogno federativo, non ancora compiuto, stella polare portante la pace, ha spesso oscillato, vacillato, ma mai ceduto. Declinato altrimenti, quale confederazione di stati indipendenti, unione, cooperazione tra nazioni, a seconda dell’intensità politica e dell’afflato, ma soprattutto del consenso verso la prospettiva federale, con conseguente riverbero sul dibattito, sulle azioni intraprese e su passi compiuti.

Nonché, ovviamente, sulla percezione dei cittadini dei paesi europei sulla bontà del progetto di allargamento dell’unione e di sempre maggiore integrazione. I cittadini hanno oscillato tra due tipi di adesione, una strumentale e una valoriale, non mutuamente esclusive. Persino l’uscita, l’abbandono del consesso europeo, ha seguito dinamiche democratiche, come mostrato da Brexit che ha messo fine alla tormentata permanenza britannica nell’unione europea, anche dopo le varie vicissitudini degli anni Settanta e Ottanta con Londra spesso su posizioni antitetiche, scettiche e infine critiche e ostili.

L’Unione europea per come la conosciamo oggi è l’epilogo, il capitolo più avanzato di un processo di unione e integrazione sorto sulle ceneri, le macerie fumanti e sanguinanti del conflitto mondiale 1939-1945, ma in realtà anche delle precedenti violenze delle guerre plurisecolari del continente.

La volontà di mettere insieme “carbone e acciaio”, in una gestione congiunta anziché competitiva e potenzialmente conflittuale, fu l’alba di un cambio di paradigma. Governare in forma cooperativa l’allocazione e il reperimento dei minerali connessi alla produzione energetica e militare per eccellenza, significò simbolicamente, ma anche sostanzialmente abbandonare la logica del sospetto, del confine, della strategia per dominare l’avversario.

Niente di nuovo su fronte occidentale, rimaneva un ricordo, seppure vivo e con cicatrici fresche, ma principalmente un monito da superare per non perire, per non scomparire non solo quale civiltà, ma anche in quanto singoli stati, destinati a rimanere schiacciati tra la tenaglia del conflitto Est-Ovest.

L’Alsazia e la Lorena, alfa e omega, simbolo e materia di guerre guerreggiate, non più oggetto di negoziati, paragrafi di trattati, non più punti sulle mappe geo-militari quali nessi strategici per approvvigionamenti essenziali, non terra di frontiera tra due giganti continentali, ma regioni d’Europa. Francia e Germania rappresentarono granai di morti, per le lunghe e sanguinose guerre “civili” d’Europa che le videro fronteggiarsi: da quella franco -prussiana del 1870-1871, alla I e II Guerra Mondiale, proprio sullo stesso, sanguinoso e martoriato confine in territori ricchi di materie prime minerarie.

Al labirinto di trincee scavate nelle rocce sopravviveva un dedalo di lingue, capitali, fiumi, tradizioni, viste però quale ricchezza e non nazionalismo fanatico da imporre ad altri.

Il sogno

Le varie lingue parlate per un frangente sembrarono essere un ostacolo all’unificazione, all’integrazione, e con piglio troppo napoleonico e realista si pensò di omogeneizzarle, tentando un esperimento, invero solo in laboratorio e teorico, di adottare una lingua comune.

Una neolingua dal nome evocativo, ma che mai fu applicata. L’Esperanto – colui che spera – un nome soave, che intendeva far dialogare popoli divisi da molto, e che in assenza di un idioma comune rischiavano di approfondire le distanze.

Da un lato l’avvicinamento all’Esperanto richiamava un approccio burocratico, un tratto pianificatore e uniformatore, dall’altro uno slancio federalista e da costruttori di nazione e padri/madri della nuova casa comune.

Attualmente l’Unione europea adotta ventiquattro lingue ufficiali, per “ragioni di trasparenza”, sebbene taluni temano il passaggio automatico all’inglese o al massimo al trilinguismo (tedesco, francese, inglese), e il sogno di Ludwik Lejzer Zamenhof, oculista polacco che sul finire dell’Ottocento sviluppò la lingua per far parlare popoli di ceppi diversi, rimane un tema a latere.

Oggi quel progetto, quel disegno utopico e fantastico è indietro nell’agenda, permeato da tematiche prosaiche, ma i giovani – ancora non abbastanza numerosi – possono viaggiare per il loro paese – l’Europa – e conoscere un’altra lingua, loro coetanei, per sfumare i pregiudizi, diluire la xenofobia, annichilire il nazionalismo di ogni risma. L’Erasmus, programma di mobilità studentesca internazionale, richiama il teologo Erasmo da Rotterdam, grande viaggiatore. Come il sogno europeo.

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