Un importante libro fa un esame critico, di tutto l’impianto culturale e pedagogico che sta a sostegno degli interventi «contro la povertà educativa». È di Michele Arena, che lavora come educatore in un quartiere di Firenze. Si intitola: Dipende dalla classe. Manifesto per una scuola anticlassista (Erickson/Il Margine)
Ci sono parole che usiamo molto spesso, “tic” comunicativi su cui sarebbe necessario riflettere meglio. La parola “bullismo” ad esempio. È di pochi giorni fa la notizia che davanti a una scuola primaria di Treviso si è svolta una manifestazione di genitori che denunciavano la presenza di un “bullo” nella classe dei loro figli.
Senza cadere in facili scelte di schieramento o in condanne sommarie – la situazione richiederebbe un serio approfondimento – dovremmo porci domande del tipo: ma chi è il “bullo”? Perché è diventato tale? Come ha influito la presenza (o l’assenza) della famiglia, della scuola, delle istituzioni? Di quella che, altra formula che usiamo spesso, chiamiamo “comunità educante”?
Un’altra locuzione che vediamo reiterarsi in mille interventi, dibattiti, convegni, bandi di finanziamento di progetti, proposte di legge e così via è “povertà educativa”.
Un importante libro fa un esame critico, argomentato e documentato, di tutto l’impianto culturale e pedagogico che sta a sostegno degli interventi «contro la povertà educativa».
È di Michele Arena, che lavora come educatore in un quartiere di Firenze. Si intitola: Dipende dalla classe. Manifesto per una scuola anticlassista (Erickson/Il Margine. Trento, 2025).
In sintesi – che non rende ragione di un libro appassionante e rigoroso – l’autore ci pone davanti a un interrogativo che sembrerebbe scontato e che invece spesso aggiriamo con vari arzigogoli concettuali o dialettici.
Chiede Michele Arena: siamo sicuri che non ci sia rapporto tra ciò che chiamiamo “povertà educativa” e le condizioni materiali dei ragazzi e delle ragazze e delle loro famiglie, che potremmo definire di “povertà” senza alcun aggettivo?
Per citare uno dei fulminanti “meme” (di @madonnafreeeda, straordinaria autrice anonima su Instagram): «Il successo accademico come riscatto di classe è un peso troppo grande sulle spalle di bambin* che non possono permettersi neanche le figurine».
La forza del libro Arena è dimostrare con dati, riflessioni, analisi, esperienze, riferimenti, che nella tracimante ricorrenza di concetti come “merito” e “talento” - che non sono patrimonio dell’attuale dirigenza del ministero dell’Istruzione, ma hanno pervaso per anni un mondo che si vorrebbe progressista e inclusivo - si trascura, per malafede o insipienza, il rilevamento della situazione materiale, economica e sociale di chi arriva a frequentare la scuola italiana.
L’altra grande questione, anch’essa rimossa, è quella del potere. Gli adulti (genitori, insegnanti, educatori, giornalisti, assistenti sociali, psicologi, etc) gestiscono - che lo vogliano o no - un potere, rispetto a chi, i bambini e i ragazzi, questo potere non ce l’ha.
L’obiezione, soprattutto da parte di chi pensa di avere la coscienza a posto perché «lavora contro la povertà educativa», potrebbe essere: l’aveva già detto (don Milani, Freire, Illich, etc).
Può essere. Ma anche ribadire il bisogno di pensare a scuola ed educazione come un mondo dove tutti sono uguali e che questa presunta “uguaglianza” è in realtà una fregatura, è davvero importante.
Ci ricorda di tenere conto delle condizioni materiali di partenza degli studenti e delle studentesse e della necessità di condividere un potere per generare processi di apprendimento e di costruzione del legame sociale, anziché mantenerne il monopolio in nome del sapere che si vuole trasmettere. Un’indispensabile autocritica per chiunque abbia compiti e facoltà di intervento nella scuola.
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