La luce al tramonto era morbida, come spalmata su un oceano tiepido. Il vento portava sale e promesse antiche. Le strade del centro, gli angoli dei quartieri popolari, le piazze attorno al porto: tutti respiravano, in questi giorni, un’aria diversa. Era l’aria di un’arena immaginata.

Alle 20, lo stadio Nazionale di Capo Verde era pieno quasi fino all’orlo - non succede spesso che una nazione intera vada a vedere una partita con occhi che fremano d’attesa. Era l’ultima gara del girone D di qualificazioni della CAF - la Confederazione africana - al Mondiale di calcio 2026. Contro eSwatini, risultato secco: 3-0. E al triplice fischio, tutto è esploso: lacrime, cori, bandiere blu e bianche, una marea di gente che si è riversata nelle strade. Perché Capo Verde ha fatto la storia.

Da mesi, i “Tubarões Azuis” - gli Squali Azzurri - navigavano un percorso incerto: una sconfitta pesante, qualche pareggio deludente, momenti in cui sembrava che il sogno si allontanasse. Ma sotto la guida di Pedro Leitão Brito, detto “Bubista”, la squadra ha trovato una china, un’identità tattica, un’ossatura.

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«Una vittoria per l’indipendenza»

Quando, poche settimane prima, Capo Verde ha battuto il Camerun, molti hanno capito che qualcosa stava per accadere. Ma nessuno poteva immaginare quanto avrebbe scavato nel profondo. Con la vittoria su eSwatini è finita la rincorsa: Capo Verde è arrivato primo nel girone D, davanti ad avversari più blasonati. È la prima volta nella storia che questa piccola nazione atlantica - poco più di 500mila abitanti - conquista un pass per il Mondiale. Con i suoi circa 4.033 chilometri quadrati totali, diventa il paese più piccolo per superficie mai approdato a una fase finale della Coppa del mondo, dopo l’Islanda nel 2018.

Dietro quella che appare come un’impresa sportiva c’è una trama fatta di migrazioni, legami familiari, diasporas. Molti giocatori della Nazionale vivono all’estero: Portogallo, Paesi Bassi, Svizzera. Eppure quando indossano la maglia dei “Crioulos”, tornano - idealmente - alle radici, alle isole da cui sono partiti, o che non hanno mai rivisto.

Uno di quei volti è Dailon Rocha Livramento, nato nei Paesi Bassi, cresciuto tra le accademie olandesi, oggi al Verona e in prestito al Casa Pia in Portogallo. Quando segna, non celebra: alza le braccia, guarda il cielo, sembra chiamare un’assemblea invisibile di antenati e sogni. In questa notte storica, è lui che ha aperto le marcature e la porta del sogno.

C’è Willy Semedo, goleador di mestiere; c’è Stopira, che entra a quattro minuti dalla fine e al 91’ e mette il sigillo sulla festa. C’è la gioia di chi ha visto l’arcipelago tremare di speranza, e ora si strappa dalle mani la certezza del “possiamo farcela”.

“Bubista”, il tecnico, ha parlato di vittoria per l’indipendenza - e forse non è un’esagerazione. In un anno in cui Capo Verde ha celebrato i 50 anni dall’indipendenza, questo risultato è già carico di ricordi, di rivendicazioni, di identità. E il governo ha concesso la giornata libera perché la nazione intera potesse partecipare.

Il calcio come ponte

Un’impresa così non è priva di nodi. Nelle prime giornate del girone, Capo Verde ha inciampato: pareggiando con l’Angola e perdendo 4-1 contro il Camerun. Le critiche si levavano, i tifosi dubitavano. Ma la fiducia nella panchina ha tenuto: la federazione non ha oscillato. E quasi come in un romanzo, il destino si è inarcato: cinque vittorie consecutive nel momento decisivo, l’ardore delle trasferte, la pressione che diventa carburante. Contro eSwatini, la squadra è entrata in campo con la leggerezza di chi non doveva dimostrare nulla, ma di chi sentiva che tutto è possibile.

Quando il primo gol è arrivato appena dopo l’intervallo, lo stadio ha ondeggiato visibilmente. Poi il secondo, poi il terzo, nel recupero. Ma non sono stati solo gol: bensì sigilli apposti a un patto collettivo. Guardando Capo Verde adesso, si capisce che il calcio è diventato un ponte simbolico: tra le isole, tra i migranti, tra chi è rimasto e chi è tornato. È la lingua che può parlare al mondo, una piccola nazione che sfida le dimensioni, e vince.

In Europa, nelle comunità capoverdiane di Lisbona, Bruxelles, Rotterdam, Parigi, ogni gol è trasmesso, ogni esultanza è una dichiarazione d’orgoglio. La Nazionale non è solo una squadra: è il filo invisibile che tiene insieme l’arcipelago e la diaspora. E mentre le grandi potenze calcistiche guardano alla competizione con l’ansia di confermarsi ai vertici, Capo Verde sbarcherà negli Stati Uniti come la sorpresa, come testimone che, spesso, le storie più intense nascono lontano dai radar.

Il Mondiale 2026 è ormai dietro l’angolo. Per Capo Verde, partecipare significa guardarsi allo specchio e vedere una nazione che crede. Significa giocare contro macchine da guerra calcistiche, sì, ma con la leggerezza di chi ha già vinto sul piano dell’identità.

Non è un obiettivo che si misura solo in punti o classifiche. È una conferma che per mezzo milione di persone l’impossibile può essere vissuto come un ingresso, non come un sogno lontano. E mentre gli “Squali Azzurri” si preparano a varcare il confine geografico del Mondiale, restano sullo sfondo le isole, l’oceano, le case con i muri tinti e gli sguardi nei vicoli.

Perché per Capo Verde questa qualificazione non è un punto d’arrivo: è la traccia di una storia che ancora deve essere scritta.

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