Nella storia del calcio ci sono alcune reti particolarmente preziose, non perché siano finite negli almanacchi. Anzi, al contrario: sono fatte della stessa materia dei sogni, assumono col tempo il valore assoluto della bellezza frustrata o impossibile, che poi è cifra dell’esistenza umana. Dalla rovesciata del francese a quella di Rummenigge contro i Rangers, fino all’incornata di Turone in Roma-Juve dell’81
«Il più bel gol che non ho segnato». Che meraviglioso paradosso con sfumature di ossimoro. Lo ha detto Kevin Keegan, riccioluto e delizioso attaccante britannico già gloria del Liverpool che così commentò, nel 1982, la rete segnata al Manchester United con una sforbiciata no-look dal limite dell’area. Una prodezza che fu però annullata dall’arbitro perché il compagno di squadra Armstrong, lontano metri, era, forse, di qualche centimetro davanti a tutti.
I gol più belli che non sono stati segnati sono preziosi forse più di quelli che risultano negli almanacchi (che termine arcaico) perché sono fatti della stessa materia dei sogni. Come i sogni al risveglio lasciano tracce della loro presenza in una sensazione, un ricordo, un senso di malessere o di strana serenità, i gol bellissimi che non esistono assumono col tempo un valore assoluto cui nessuna rete convalidata potrebbe mai ambire: quello della bellezza frustrata o impossibile, che poi, ahinoi, è una cifra dell’esistenza umana.
A certi livelli non ci si può arrivare, pena bruciarsi le ali come Icaro: e allora interviene una qualche divinità a bloccare tutto. Forse è anche per questo che i bellissimi gol “non avvenuti” godono di un’aura particolarissima: perché appaiono come gesti omerici, starebbero bene nell’Iliade. Con Achille che si rinchiude nella sua tenda non già perché Briseide gli è stata sottratta per essere “regalata” ad Agamennone, ma perché offeso per un gol annullato. Ci starebbe benissimo, vero?
La piroetta di Platini
Nella storia dei gol bellissimi che non sono stati segnati, quella dell’8 dicembre è una data fondamentale. Perché non è associata solo alla pregevolezza del gesto atletico, ma anche e soprattutto per ciò che è successo immediatamente dopo. Alla postura di colui che quel gesto aveva realizzato e che risponde al nome di Michel Platini.
Una postura, immortalata da fotografi e telecamere, che è diventata immagine di chi ha toccato i vertici della bellezza, ma non gliene è stato riconosciuto il merito. La partita era quella fra Juventus e Argentinos Juniors, finale di Coppa Intercontinentale a Tokyo, giusto quarant’anni fa. Michel si esibì in una piroetta volante in due tempi nella quale l’arbitro Roth intravvide forse un gioco pericoloso del francese.
Il campo era una melma fangosa e il numero dieci voleva anche evitare di far toccare terra alla palla. Ma la terra la toccò lui subito dopo l’annullamento: prima inginocchiandosi, e qui arrivò il colpo di genio, sdraiandosi su un fianco con la mano a sostenere la testa: una versione calcistica, ha scritto qualcuno, della Paolina Bonaparte di Canova.
Di quella partita è soprattutto quel momento che si ricorda; forse perché senza volerlo Platini diede volto e postura alla delusione esistenziale di chi è conscio di aver realizzato una grande opera e ancora non sa che proprio il fatto che qualcuno ne neghi l’esistenza sarà ciò che lo consegnerà alla storia. Tra l’altro quella partita disputata quando in Italia era notte fonda, e che alla fine la Juve vinse ai rigori, era visibile in diretta televisiva solo in Lombardia; tutti gli altri avrebbero potuto assistervi solo in differita ore dopo.
E nelle orecchie di chi la vide restò a lungo quel suono monocorde e un po’ stridulo che accompagnò la trasmissione, un tappeto sonoro pre-vuvuzelas che conferiva al tutto la sensazione di assistere a qualcosa che arrivava da un altro mondo. In un contesto astrale del genere era quasi inevitabile che trovasse casa una simile esplosione di creatività negata.
La perla di Rummenigge
E come in ogni storia che si rispetti anche in questa c’è un villain, un cattivo. Uno che pare destinato a negare la bellezza. Nella fattispecie non poteva che essere un arbitro: quello stesso Volker Roth che prima di rendere inutile il palleggio volante di Platini aveva già colpito un anno prima, quando aveva tentato di consegnare all’oblìo un’altra perla, quella creata da Karl-Heinz Rummenigge contro i Rangers in un match di Coppa Uefa.
Una rovesciata volante eseguita fra due difensori che manco si erano accorti di cosa stava succedendo. E che, al contrario del sombrero di Platini, non sarebbe stata decisiva perché l’Inter stava già vincendo 3-0. Ma un gesto che è passato alla storia proprio per l’esiguo spazio in cui ha avuto luogo. Forse, forse, nonostante la bellezza intrinseca, quell’ellisse perfetta sarebbe scomparsa per sempre se non fosse stata annullata. Se non fosse entrata nel gotha di quei gol che vivono di vita propria e che si sono sganciati dalla gabbia delle statistiche e dei risultati.
Il “fuorigioco” di Turone
Un gotha che ognuno può creare perché quei gol ripropongono sé stessi e il periodo in cui sono andati in scena indipendentemente da tutto. A ben vedere ce n’è uno che più di tutti in carna questa natura. Magari non straordinariamente bello come i due citati, ma che molto più di essi è diventato un evento letterario. Quello segnato da Ramon Turone quando mancavano pochi minuti alla fine di quel Roma-Juve del 10 maggio ’81.
Un gol di testa in tuffo realizzato con una leggerezza che non ti aspetteresti da un difensore. Gol annullato per un fuorigioco mai provato, ma che nel suo sviluppo aveva, come si è visto a posteriori, tutti i cromosomi propri della regolarità. In questo caso non solo il tuffo di Turone fu accolto nel novero delle bellezze negate: ma è ancora simbolo della speranza offesa.
Se fosse stato convalidato è probabile che sarebbe cambiata la storia del calcio a venire, non solo quella di quel campionato. Ma di certo Turone non sarebbe asceso all’empireo di quei gesti calcistici che oltrepassano il calcio, diventano un’altra cosa.
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