Una via a pochi metri da piazza Dante, Napoli, ora di pranzo, una piccola trattoria, pochi avventori. E una foto, neanche troppo grande, che però sa interrogarci da lontano. La sagoma di Diego Armando Maradona nello stadio che ora porta il suo nome, il piede sinistro, il pallone in decollo, una folla di maglie della Juventus davanti.

Un uomo capta il nostro sguardo e ha pronte le parole per scrivere la didascalia della scena, come se non aspettasse altro. Si tratta della punizione del secolo, così la chiama e così la chiamano in tanti, che cambiò il calcio italiano, e forse non solo quello italiano.

Il gol che l’argentino realizzò al minuto 27 del secondo tempo di quella sfida. Il gol indimenticabile quanto “impossibile” perché quel pallone ingannò pure la fisica, non solo la Juve di Platini. In pochissimi metri, poco più di una quindicina, fece tutto quello che c’era da fare: alzarsi, scavalcare la barriera, infilarsi nella porta difesa da Stefano Tacconi. Successe il 3 novembre 1985. Oggi sono 40 anni.

La forza del passato

Impossibile è pure calcolare in quante Napoli, case o locali che siano, sia affisso quel momento. Per molti non servono i muri, basta la memoria. Certo Youtube dà una mano all’occorrenza, ma anche gli occhi estasiati con cui quelli che c’erano raccontano ai loro figli o nipoti quell’attimo fuggente. In un mondo che sembra ubriaco di presente, dove la memoria somiglia a un optional di cui poter fare a meno, c’è un passato più forte di tutto.

Il Napoli ha vinto quattro scudetti dopo quel giorno, due con Maradona e due recentemente, ma non c’è niente da fare: quel gesto iconico ricompare a ogni angolo di strada e si mangia tutte le imprese degli eroi più vicini nel tempo, gli Osimhen, i Kvara, i McTominay. In quella traiettoria c’è l’Imagine o la Gioconda del calcio. Un simbolo in qualche modo “aperto”, perché quel secondo lascia aperte tutte le soluzioni. Forse ce n’è una, ma chissà dov’è. Magari un giorno si scoprirà, ma per ora a vederla e rivederla il giallo resta in bilico. E alla fine si resta inchiodati a una sola domanda: come avrà fatto a costruire quella specie di tiro telecomandato con la barriera avversaria vicina ben oltre la distanza regolamentare?

Era il 1985, la Juve correva in testa alla classifica, Maradona era al suo secondo anno di Napoli. Successe tutto grazie a un’entrata fallosa di Gaetano Scirea su Daniel Bertoni, con l’arbitro Giancarlo Redini che negò il rigore e optò per una punizione indiretta in area. Oggi fioccherebbero le proteste e un probabile, lungo e tormentato replay della Var. Allora no, allora c’era Maradona. Eraldo Pecci, che gli era a fianco, provò a dissuaderlo dalla stoccata “impossibile”. «Toccamela dai». «Ma come fai da quella posizione?». Poi si arrese: «Fai come ti pare, tanto Maradona sei tu».

Ci volle coraggio per provarci, però Diego, scomparso nel 2020 a 60 anni, ne aveva, eccome se ne aveva. «Rispose a tutte le domande che gli fece il calcio», ha scritto in queste ore il quotidiano argentino Pagina 12 citando una frase di un tifoso.

La Seconda Repubblica del calcio

Quella risposta, però, ebbe un’anima speciale. Come un gigantesco «si può fare» che avrebbe fatto da apripista a una nuova epoca. La Juve vinse quello scudetto, ma Maradona entrò nel suo girone favoloso, prese qualche mese dopo per mano l’Argentina fino al titolo mondiale e il Napoli fino allo scudetto, poi replicato nel 1990. Come la nascita di una Seconda Repubblica del calcio.

Una ferita dolorosa per la Juve di Agnelli, ancora incisa nella storia se proprio al momento della morte dell’argentino quel gol sui profili social del club rivale diventò un omaggio all’uomo che aveva fatto cambiare il vento. Sotto l’acqua. Perché pure quella pioggia battente fu complice dell’affresco. La pioggia dei potreros, i campi fangosi dell’immensa periferia di Buenos Aires, quelli dove il ragazzino Diego era diventato grande in fretta.

Fernando Signorini, lo storico preparatore di Maradona, quel giorno c’era e ci confida al telefono che «fra tutti i gol di Diego che ho avuto il privilegio di vedere, questo mi è sempre parso il gol completo per eccellenza. Un gol utopistico: avrebbe potuto cercare il palo più lontano per dare al pallone più tempo per abbassarsi, oppure cercare la botta violenta per trovare qualche varco nella barriera. Macché, scelse la cosa più difficile. Qualche giorno dopo ne parlammo e gli dissi: “Sei stato fortunato, se giochi altri cento palloni dalla stessa posizione non ne va in gol neanche uno”. E lui cosa rispose? Mi guardò ridendo e poi fece: ma a me interessava quello, non gli altri cento!».

In tribuna non c’era Giancarlo Siani, il giornalista, fra l’altro tifoso del Napoli, che la camorra aveva ucciso 40 giorni prima e a cui la domenica dopo l’allora San Paolo aveva dedicato una grande ovazione. La storia e il calcio: due storie che si intrecciano spesso. E a Napoli di più. E torna la memoria, una parola che in Argentina, nonostante i “riduzionismi” e i negazionismi dell’attuale potere politico a Buenos Aires, chiama in causa il periodo tragico della dittatura e dei desaparecidos, un orrore presente nei pensieri e nelle parole di Maradona in diversi momenti della sua vita.

Quarant’anni sono tanti. E anche se Maradona ha risposto alle tante domande che gli ha fatto il calcio, ce n’è una che è sopravvissuta anche alla sua morte. Per quanto tempo ancora, il “gol bello e impossibile”, Gianna Nannini perdonerà il furto di parole, continuerà a vivere nelle immagini e nei racconti? E quando troveremo il coraggio, noi o più probabilmente chi verrà dopo di noi, di dire di un gol, «come quello di Maradona alla Juve»?

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