Da Gennaro Gattuso e dai suoi giocatori sono arrivate solo frasi di circostanza, in merito alle richieste di non giocare contro Israele il 14 ottobre, mentre la Figc ha annunciato che farà una donazione in beneficenza per Gaza. Fifa e Uefa, dal canto loro, ancora non hanno preso una posizione chiara sull’argomento. Ma c’è un’altra parte del mondo dello sport, meno raccontata e visibile, che si è schierata in favore della Palestina: non sono atleti o figure istituzionali, ma bensì accademici che studiano proprio lo sport.

Nella primavera del 2024 è stato fondato il gruppo Sport Scholars for Justice in Palestine, composto principalmente da studiosi e ricercatori del mondo anglosassone che vogliono sensibilizzare sulla situazione di Gaza e della Cisgiordania. «Il nostro background accademico include generalmente la sociologia dello sport e lo sport management, ma molti di noi studiano da una prospettiva critica la relazione tra lo sport e i concetti di razza, genere, classe, politica e società, e di colonialismo, imperialismo e capitalismo», spiega Chen Chen, assistant professor di Sport Management presso l’Università del Connecticut e portavoce del gruppo. La sua specializzazione è proprio su sport e colonialismo, oltre che sulla diaspora asiatica nello sport.

Sport e politica non possono essere separati

La nascita del gruppo ha avuto come obiettivi non solo il sostegno alla causa palestinese nel discorso sportivo e accademico, ma anche quello di supportare studiosi con impieghi precari, che esponendosi singolarmente su questo tema potevano mettere a rischio il proprio posto di lavoro. Parlare di sport e politica non è mai facile, e di frequente la reazione a cui si va incontro è quella di chi pretende che i due concetti restino separati. «Il modo in cui lo sport è praticato e organizzato è già di per sé il risultato delle condizioni politiche in una determinata società. Chi ha la possibilità di giocare, a che condizioni e in base a quali regole, quali sono le ricompense, chi fabbrica i kit delle squadre, dove si trova il campo da gioco… Ai politici borghesi piace dire “la politica fuori dallo sport” quando la politica non è quella che piace a loro», dice Chen.

Il lavoro di divulgazione di Sport Scholar for Justice in Palestine si sviluppa attorno a un sito internet su cui sono disponibili diverse risorse per approfondire la storia dello sport in Palestina, e anche come questo si interseca con il colonialismo e le violenze israeliane. Una sezione raccoglie podcast e documentari che possono essere ascoltati o visti online, mentre un’altra raccoglie un numero impressionante di articoli accademici, alcuni dei quali consultabili liberamente.

Molti di questi documenti si concentrano sul calcio, lo sport più popolare in Palestina e, anche per questo, il più colpito. Gli stadi e i campi sportivi nella Striscia di Gaza sono stati danneggiati, del tutto o in parte, e alcuni - come lo storico stadio Yarmouk di Gaza City, costruito nel 1952 - oggi sono utilizzati come campi profughi. A fine agosto, la federcalcio palestinese denunciava l’uccisione di almeno 355 figure legate al calcio da parte dell’Idf, tra cui il più noto è Suleiman Al-Obeid, il cosiddetto “Pelé palestinese”, assassinato il 6 agosto in un attacco israeliano, mentre era in fila per ricevere aiuti umanitari.

Tra violazioni e impunità

Tra gli approfondimenti segnalati dal gruppo, Chen ne evidenzia uno sulle restrizioni agli spostamenti degli atleti palestinesi tra Gaza e la Cisgiordania, imposti dall’Idf e precedenti al 7 ottobre 2023: «Vengono regolarmente molestati e respinti ai posti di blocco. Per questo motivo, gli atleti palestinesi non possono allenarsi e competere per la loro squadra nazionale alla pari dei loro colleghi di altri paesi».

Un altro tema è quello degli atleti feriti dai cecchini israeliani, a cui si collega il lavoro dell’associazione di ciclismo paralimpico Gaza Sunbirds. C’è poi la questione dei club di calcio con sede nelle colonie illegali in Cisgiordania, che rappresentano un’aperta violazione dei regolamenti della Fifa, denunciata già nel 2016 da Human Rights Watch ma ancora senza alcuna conseguenza.

Per queste ragioni, Chen e i suoi colleghi pensano che le federazioni sportive e gli atleti internazionali abbiano la responsabilità di sostenere il boicottaggio sportivo di Israele: «È una delle molte tattiche che servono una strategia più grande: segnalare alle persone che ciò che Israele sta facendo è inaccettabile».

In vista di Italia-Israele, il messaggio viene rivolto anche agli azzurri: «Dovrebbero studiare la storia dei Mondiali del 1934, e capire cosa è successo nel loro paese», conclude Chen.

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