Mauro Berruto (Pd), ex c.t. della Nazionale di pallavolo, ha attaccato quella che ha definito «una doppia morale»: perché la Russia è esclusa dalla comunità internazionale olimpica e Israele no? Analisi del contesto e delle prospettive: il senso di colpa per l’attentato di Settembre Nero del 1972, la presa di posizione delle associazioni umanitarie, la partita di calcio fra nazionali che ci aspetta a Udine nel mese di ottobre
Forse tutto comincia dall’impotenza. Vedi le immagini e le cronache da Gaza: la fame, le bombe, la truce contabilità quotidiana delle vittime. Condita dall’ammissione di “errori” nella tutt’altro che chirurgica offensiva israeliana. Il presente implode, il futuro non esiste. E ti chiedi che fare quando tutte le vie diplomatiche sembrano brutalmente sbarrate.
Allora pensi pure allo sport. L’ha fatto alla Camera Mauro Berruto, deputato, responsabile del settore per il Pd, un curriculum da allenatore nel volley fino alla panchina azzurra. Nelle dichiarazioni di voto sul Decreto sport ha attaccato quella che ha definito «una doppia morale». In una domanda: perché dire alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina sei fuori (un “fuori” che al momento vale anche per le Olimpiadi di Milano-Cortina dell’anno prossimo) e non fare la stessa cosa per Israele?
«Di fronte a 635 atleti uccisi, all’85% delle infrastrutture sportive rase al suolo a Gaza, all’urlo di dolore del Comitato olimpico palestinese che dice che per 10 anni non sarà possibile riprendere nessuna attività sportiva nella Striscia», ha chiesto «al governo e alle autorità responsabili sportive italiane» di proporre a Cio, Fifa e Uefa che «lo Stato di Israele, per la responsabilità politica e morale di Netanyhau, sia sospeso da tutte le competizioni sportive internazionali».
A distanza di qualche ora dall’intervento, non si segnalano reazioni istituzionali nel nostro paese. In mezzo all’infoltirsi delle possibili richieste di riconoscimento dello stato di Palestina, dopo il francese Macron forse il britannico Starmer, ci pensano pure Australia e Canada, l’argomento per l’Italia che galleggia su posizioni più o meno “trumpiane”, è tabù. Ma i mesi passano, e se nel periodo prima delle Olimpiadi di Parigi la prudenza era diffusa anche perché si viveva vicinissima l’emozione per gli attacchi assassini firmati da Hamas il 7 ottobre 2023, ora è impossibile catalogare ciò che sta succedendo sotto l’ombrello della legittima difesa.
Improbabile, però, che ciò produca una clamorosa esclusione in un mondo, anche olimpico e sportivo, condizionato dalla posizione del colosso, geopolitico e sportivo, statunitense. Le dichiarazioni dello scorso maggio del commissario Ue per la cultura, il maltese Glenn Micallef – «nessuno spazio per coloro che non condividono i nostri valori», aveva detto parlando di Gaza ma senza nominare mai Israele – non hanno avuto un seguito sportivo. E il grido di dolore palestinese sta cadendo ancora nel vuoto.
Il confronto con la Russia regge solo a metà. Formalmente, il Cio per giustificare le sanzioni adottate in poche ore dopo l’invasione del 24 febbraio 2022, usò l’arma del tradimento della tregua olimpica. Putin, infatti, lasciò finire le Olimpiadi di Pechino e poi invase quattro giorni dopo la cerimonia di chiusura, incorrendo dunque nella violazione dei cessate il fuoco che si allungano fino a una settimana dopo la conclusione dei Giochi.
Una circostanza che ora non c’è a voler insistere sulla forma e non sulla sostanza. Diverso è stato invece il discorso sull’esclusione degli atleti che non si dissociano dalle ragioni della guerra. Un’iniziativa che nasceva da una disparità sottolineata pure dal comunicato olimpico di quei giorni: se non si fossero presi provvedimenti, russi e bielorussi avrebbero potuto continuare a gareggiare, mentre a molti atleti ucraini sarebbe stato impedito. Dunque, dissero a Losanna, bisognava fare qualcosa. E qualcosa si fece.
Gli equilibri del Cio
Il Cio ha sempre provato a slalomeggiare fra conflitti, dispute politico-diplomatiche, faticosi rapporti con regimi totalitari, impossibilità di chiudersi a chiave di fronte ai guai del mondo come dimostrò la stagione dei boicottaggi in piena guerra fredda. La storia olimpica è fatta, però, anche di diverse esclusioni, dal 1948 quando Germania e Giappone, sconfitte nella Seconda Guerra Mondiale, non furono invitate a Londra, alla lunga squalifica del Sudafrica razzista.
Anche la frantumazione della Jugoslavia, portò a un’interdizione: il conflitto serbo-croato e l’inizio dell’assedio di Sarajevo portò a Barcellona 1992 al via libera per Croazia, Slovenia e Bosnia, ma i serbi parteciparono solo a titolo individuale tanto che negli Europei di calcio di poco tempo prima la talentuosa squadra jugoslava (allora alimentata ancora anche da montenegrini e macedoni del nord) lasciò il posto alla prima delle escluse, la Danimarca, che poi andò addirittura a vincere il titolo. È stato però con l’esclusione della Russia che si è compiuto un salto. Di qui la domanda: perché ciò che vale in Ucraina non ha senso a Gaza?
Si può fare qualche ipotesi. L’attentato di Settembre nero che provocò la morte di 11 atleti israeliani – perirono anche cinque terroristi e un agente tedesco – nei Giochi del 1972 a Monaco, ha prodotto negli anni una macchia sempre più estesa, un senso di colpa di fronte a chi riteneva che una tragedia del genere motivasse l’annullamento dei Giochi e non un semplice giorno di pausa.
L’eco di quei giorni non è mai svanita se ancora qualche anno fa, era il 2012, Pietro Mennea – atleta in quei Giochi, dove conquistò il bronzo olimpico – chiese al Cio in una lettera al suo presidente di allora, Jacques Rogge, un «giusto tributo con un minuto di silenzio, magari ricordando i loro nomi», senza però ottenere una risposta positiva. Da Losanna si sottolineò che la tragedia era già stata ricordata più volte e «che non tramonterà mai la memoria delle vittime». Prevaleva una sorta di real politik, un toccare il meno possibile ciò che non rientrava nella mission olimpica in senso stretto.
Va dato atto a Thomas Bach, il presidente che dal 2013 allo scorso marzo ha guidato il Cio, di avere comunque inaugurato una linea diversa, si pensi per esempio alla nascita dell’Olympic Refugee Team, che ha consentito la partecipazione di diversi atleti fuggiti da dittature e discriminazioni. Prima di Parigi, l’ex fiorettista aveva curato personalmente la trattativa per la presenza in Francia di atleti olimpici palestinesi. Ora, però, l’orrore di Gaza mette in discussione tutto e tutti.
La protesta
Finora la protesta contro Israele si è divisa fra due fronti. Uno non è una novità, il boicottaggio sportivo di diversi paesi arabi (ultimo caso il no della Giordania ai mondiali di basket femminile Under 19 in Svizzera). L’altro è la mobilitazione di alcune tifoserie, anche in Italia, sotto lo slogan «Show Israel The Red Card» lanciato inizialmente dagli spalti del Celtic Glasgow in Scozia. Berruto si dice «perfettamente consapevole che l’Italia non può prendere unilateralmente alcun tipo di decisione», il suo appello era rivolto a Cio, Uefa (Israele è sportivamente in Europa, pure se geograficamente in Asia) e Fifa.
«Ma che cosa vuol dire questo? Il governo, le istituzioni sportive, i membri italiani del Cio possono fare qualcosa o ce ne restiamo zitti e aspettiamo la partita? Si può immaginare che ci possa essere qualcosa, almeno un segno, tipo le magliette rosse indossate nel Cile di Pinochet durante la finale di Coppa Davis?».
La partita è la sfida calcistica di Udine con Israele del 14 ottobre (all’andata si giocherà a Debrecen, in Ungheria, l’8 settembre). Nel frattempo, a proposito di qualificazioni mondiali, lo scorso giugno si è infranto all’ultimo minuto contro l’Oman il sogno della nazionale calcistica palestinese di andare a giocare il Mondiale 2026. Visto tutto quello che sta succedendo, sarebbe stato un miracolo.
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