Il 28 dicembre negli Emirati la numero uno del mondo sfiderà il cattivo ragazzo australiano in un singolare misto. È una immensa trovata commerciale, ma è anche la metafora d’altro: a differenza del precedente di Billie Jean King nel 1973, Sabalenka avrà il lusso tipicamente maschile di giocare solo per vincere
Gli scontri diretti hanno sempre il fascino della definitività, anche se il tennis è lo sport dell’eterna rivincita. In questo caso anche di più, perché l’uno - Nick Kyrgios - è contro l’altra - Aryna Sabalenka - in un singolare misto che fa rivivere una delle leggende del tennis, e infatti ne recupera il nome: “La battaglia dei sessi”.
Prima assoluta, nel 1973, tra l’allora campionessa del mondo Billie Jean King e l'ex campione del mondo Bobby Riggs: trentenne lei, cinquantenne lui, finì con un netto 6-4, 6-3, 6-3 per colei che avrebbe dato il suo nome alla Davis femminile.
A scanso di equivoci, da allora non è cambiato solo il secolo. Quella tra la numero uno del mondo, la “tigre” Sabalenka, e il cattivo ragazzo australiano numero 652 della classifica maschile è prima di tutto una enorme trovata commerciale.
Il dio denaro
Nata quasi per scherzo tra i due, a metterla in piedi è stato il lungimirante agente di entrambi Stuart Duguid. A fornire campo e palline saranno gli Emirati Arabi: appuntamento il 28 dicembre a Dubai alla Coca-Cola arena, 17mila biglietti disponibili. Regole d’ingaggio: una sola palla di servizio e il campo femminile più piccolo del 9 per cento.
Insomma, qualcosa che promette di far incrociare nel comune sdegno due bolle agguerrite e non comunicanti: i puristi del tennis e le femministe. I primi perché il campo e la singola battuta e il tennis sta diventando un insopportabile carrozzone mediatico; le seconde perché gli Emirati Arabi e il confronto rischia di nuocere al movimento tennistico femminile e Kyrgios è un misogino e così gli si dà visibilità.
Tutto vero. Però.
Ad aprire le porte è stata la Six Kings Slam, esibizione di sei prestigiosi invitati dall’Arabia Saudita. Poi è stato il turno del doppio misto a quattro game in due giornate di Us Open. A gennaio poi toccherà al One Point Slam durante l’Australian Open: professionisti contro dilettanti, partita a un solo punto e un milione di dollari australiani di montepremi. E allora perché stupirsi dell’ennesima Battle of the Sexes: sarà un’esibizione come tutte le altre, piegherà le regole in favore dell’intrattenimento come tutte le altre, produrrà milioni di euro di introiti come tutte le altre.
Del resto la ragione per cui si giocò la prima battaglia dei sessi - la parità di montepremi tra uomini e donne - non è quasi più un tema nel tennis professionistico. Il denaro, che è ormai metro del successo di qualsiasi sport, non è più un discrimine tra uomini e donne: i compensi sono sostanzialmente parificati tra tornei singolari femminili e maschili (lo è in tutti gli Slam, il master di Roma rimane un’eccezione) proprio grazie a Billie Jean King, e i veri fiammiferai e fiammiferaie sono i doppisti e le doppiste pure.
E allora inutile mentirci: le racchette di Sabalenka e Kyrgios si incroceranno solo per il denaro che entrerà nelle rispettive tasche, oltre che in quelle degli organizzatori.
Giocare solo per vincere
Eppure, lo sport non è solo ciò che accade in campo, ma è anche metafora negli occhi di chi guarda.
Certo che i due giocano per arricchirsi, certo che ci sono modi migliori per dimostrare qualcosa. Ci sono anche modi più razionali di esorcizzare il fastidio per chi, ancora, è convinto che le donne siano tutte a sua disposizione.
Eppure, ogni punto che Sabalenka metterà a segno nel rettangolo di Kyrgios avrà il peso di un metaforico schiaffo al maschilismo tossico che lui rappresenta: quello dell’insulto alle sue ex come Anna Kalinskaya e quello della sbruffonaggine del «vinco facile, pensate veramente che debba applicarmi al 100 per cento?», anche se quest’anno ha giocato cinque partite e Sabalenka ha vinto uno Slam. Sarà la gioia tipica della più ottusa tifoseria, di certo di pancia, ma sarà una gran soddisfazione.
Con una certezza in più, che finalmente appartiene anche alle donne. A differenza di Billie Jean King, che veramente giocava per qualcosa di più grande di lei, Sabalenka può finalmente concedersi il lusso tipicamente maschile di giocare solo per vincere. Questa partita sarà solo una partita, fatta di quello che rende il tennis lo sport più crudele: il feroce agonismo individuale e la guerra mentale contro se stessi.
Sabalenka non avrà sulle spalle le rivendicazioni del movimento tennistico femminile, non si porta appresso alcuna sudditanza economica. Se perderà potrà starci lo sfottò, ma con la dolce consapevolezza che (solo) nella sua bacheca quest’anno sono entrati trofei veri.
Inoltre, facile previsione è che il format sarà di sicuro successo e l’anno prossimo qualche emiro organizzerà la rivincita. Questa, invece, dovrebbe diventare la vera battaglia ancora da combattere, per il tennis e per tutti gli altri sport che si abbeverano ciecamente ai pozzi milionari arabi: una battaglia trasversale, che non c’entra nulla con il genere di chi è in campo e tutto con quello di chi ha (da poco e chissà se solo pro forma) il diritto di applaudire dagli spalti. Ma questa è ancora un’altra partita.
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