La famiglia delle intelligenze artificiali Gpt è stata realizzata da OpenAI, una start up, va da sé, californiana e dalla direzione molto giovane, che ha potuto “mettere a terra” le sue filosofie grazie a una montagna di microchip e al rifornimento di miliardi assicurato da Microsoft.

Da pochi giorni è in campo l’ultimo esemplare, Gpt-4, un ammasso di software con – miliardo più miliardo meno – 200 bilioni di parametri, che ingoia testi e immagini e ne trae i criteri con cui improvvisare risposte a richieste d’ogni genere, conosce come rispondere in modo appropriato e in ogni lingua, sa sintetizzare flussi di storia in poche righe, compone poesie e traduce in un istante (glielo abbiamo chiesto per provare), in programma da computer il gioco del burraco. Fa tutto quello che facevano le versioni precedenti, ma con indici di risultato assai migliori.

L’infallibilità è ancora lontana, ma gli esami della scuola superiore pare che l’ultima versione li superi alla grande, laddove le precedenti zoppicavano. A scanso di equivoci e proteste per le castronerie che comunque può produrre, gli ingegneri della casa hanno predisposto un ampio “bugiardino” (segnalato da Erik Lambert) che mette le mani avanti e invita alla cautela. Un aspetto essenziale perché queste creature, come le medicine ammesse in farmacia, dovranno essere manovrate non tanto da chi l’ha predisposte, ma da terzi che pagano per farlo.

Un modello di AI a molti stadi

Gpt-4, in particolare, è una sorta di immenso e fertilissimo appezzamento nel quale ognuno può piantare quel che vuole, contando sulle risorse che il sottosuolo gli può offrire (e, supponiamo, pagando in proporzione a quelle che si prende).

Nel bugiardino si spiega ad ogni istante che l’architettura è multiscala, e cioè che s’adatta al peso della specifica applicazione che prolunga quella potenza in questa o quella prestazione. Per non dire che il progettista di una start up che stia ancora giocando con le idee potrebbe accedere a quel colosso riducendo il costo al minimo

Democratizzazione e ricavi 

Col che saremmo ai primi passi di una sorta di “democratizzazione” della potenza elaborativa. Un evento analogo, forse superiore, alla democratizzazione dell’accesso alla pubblicità “molecolare e mirata”, inaugurato dall’algoritmo di Google all’inizio del millennio (da allora anche i più umili artigiani possono far sapere al mondo cosa producono e raggranellare una clientela).

l’intelligenza artificiale accessibile a prezzi ragionevoli secondo la forza delle tasche, c’è già qualcuno che la paragona alla distribuzione dell’elettricità o addirittura all’invenzione della ruota. Ed è probabile che non si sbagli affatto.

La gloria finanziaria di OpenAI e della sua ultima “AI generativa” dipenderà ovviamente da quanti saranno i produttori di “contenuti” che pagheranno per fare sinergia con quel mostro di potenza. E da ciò dipenderà la destrutturazione più o meno spettacolare degli attuali flussi di ricavi tra Google, Apple, Meta, Amazon e Microsoft, che nella serie Gpt ha investito a tutta forza.

Magari ci sbagliamo, e può essere che il fallimento delle banche nella Silicon Valley sia solo questione di banchieri rapaci e incompetenti. Ma forse è esplosa semplicemente l’attesa di una radicale ristrutturazione del mercato.  Del resto la finanza, si sa, è una scommessa sulle attese.  

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