Leggiamo sul New York Times che il Cremlino pretende che YouTube e Facebook blocchino i post che mostrano la guerra; gli ucraini chiedono che le compagnie taglino il servizio in Russia; gli occidentali vogliono che siano bloccati i media statali e la propaganda russa.

Il tutto mette sotto pressione i “team di sicurezza” che “identificano e rimuovono la disinformazione sponsorizzata dallo stato” nei social network, al punto che per tenere buone le richieste gli staff di Facebook, YouTube e Twitter comunicano costantemente tra di loro e si raccontano le reciproche scoperte.

Guerra e propaganda

I nodi di Google con YouTube, di Twitter e specialmente di Meta con Facebook e Instagram, vengono al pettine tutti insieme con la guerra, mettendo di fatto in discussione il cuore del loro modello di business che trae ricavi dalla propaganda di ogni genere, tanto dichiarata quanto anonima. Il tutto al riparo della manleva del 1996, quando Bill Clinton fissò la panzana che i provider sono passivi come un muro e non rispondono di quel che pubblicano gli utenti.

Non stupisce che questa bolla ipocrita scoppi quando la propaganda incrocia la guerra e interviene a decidere chi vive e chi muore, chi insegue e chi scappa sul campo di battaglia, chi cede e chi regge tra i civili.

Di fronte alle richieste degli stati, i social traccheggiano ed eseguono solo l’ordine di tagliare le fonti russe dichiarate e conosciute, come Sputnik e RT (Russia Today), due dei più importanti siti russi di notizie di proprietà dello stato. Ma va notato che gli stessi strateghi preoccupati della propaganda dichiarata emanata dal nemico, nulla hanno chiesto di sostanziale nei confronti del ben più massiccio lavoro di disinformazione che tutte le parti in causa svolgono attraverso utenze mascherate dall’anonimato. Così rendendo chiaro che nel lago dell’anonimo ognuno, a partire dai poteri di qualunque stato, conduce propaganda e altri affari.

Responsabilità editoriale

Intanto, strateghi militari a parte, alcuni rinomati esperti americani osservano sarcastici che, le aziende big tech vogliono i vantaggi del monopolizzare le comunicazioni nel mondo, ma non la responsabilità di scegliere da quale lato stare, quando la geopolitica lo impone.

C’è chi vorrebbe da Facebook e simili una netta scelta ideale e pratica a favore di diritti umani e democrazia, indipendentemente dalla contingenza della guerra russa. Non solo quindi la censura di qualche orrore estremo, individuato da una schiera di volonterosi impiegati a libro paga, ma una dichiarata linea editoriale e il monitoraggio preventivo dei testi e dei video.

Ma la responsabilità editoriale è proprio ciò che i social non possono accettare sia perché la rendono impossibile dietro l’usbergo degli utenti anonimi sia perché un qualsiasi “taglio” editoriale mutilerebbe il carattere universale della piattaforma restringendola al campo delle cerchie di idee, odi e passioni più propense.

Schierarsi o non schierarsi?

Insomma, i big tech sono chiamate a scegliere: c’è chi gli chiede di schierarsi contro i regimi autoritari che approfittano delle nostre società aperte per mitragliarci di fandonie, ma la richiesta contraddice la loro intima struttura e condurrebbe allo scoppio della prosperosa bolla ventennale.

Finora la politica, più che altro quella dell’Unione europea, s’è ingegnata a porre vari vincoli e garanzie a tutela di privacy e pratiche commerciali, ma s’è sempre arrestata prima di bucare la bolla con lo spillo più efficace quale sarebbe l’impedire l’utenza anonima fin dalla radice. Se nessuno stato, per quanto trasparente e democratico, si spinge oltre questo limite la ragione altra non può essere che in quel buio nasconde molta roba.

In questo stallo, e anche in mezzo agli strattoni della guerra, torniamo così al punto che l’attuale ecosistema social è strutturalmente esposto alle incursioni tossiche di chiunque, ed è comunque irriformabile perché i bilanci delle aziende sono quel che sono.

© Riproduzione riservata