Nel 2021, Amazon ha fatturato 469 miliardi di dollari, con un utile di 24 miliardi. Cifre enormi, ma che non dovrebbero sorprendere considerando le dimensioni del colosso di Seattle, che detiene il 13 per cento del mercato globale dell’e-commerce: percentuale che sale al 56,7 negli Stati Uniti ed è attorno al 20 per cento nei principali mercati dell’Europa Occidentale.

Non solo, il servizio Prime – il cui costo è lievitato del 400 per cento e anche più nel corso degli ultimi sei anni – è stato sottoscritto da oltre 200 milioni di persone in tutto il mondo, che hanno così accesso anche alle due piattaforme streaming Prime Video e Music (e ad altro ancora).

Da tempo è però noto come la principale fonte di guadagni di Amazon non sia l’e-commerce, ma sia invece Amazon Web Services, piattaforma che permette alle aziende di gestire la loro infrastruttura informatica via cloud.

La forza di AWS

Nonostante il fatturato per il 2021 di AWS sia una parte nettamente minoritaria del totale (62 miliardi di dollari), il servizio cloud di Amazon rappresenta addirittura il 75 per cento degli utili (18 miliardi). Pur impallidendo, in proporzione, rispetto ad AWS, l’e-commerce resta comunque altamente profittevole per Amazon, oltre a essere la leva attraverso cui, sfruttando il successo di Prime, ha potuto espandersi in settori dalle sconfinate potenzialità come lo streaming e il gaming.

Ed è qui che, però, iniziano le sorprese. Secondo un dettagliato report di ILSR (Institute for Local Self-Reliance, un’associazione a favore delle piccole imprese statunitensi), nel 2020 il servizio Prime e le vendite gestite direttamente da Amazon sarebbero state in perdita.

Più precisamente, sarebbero state in (profondo) rosso per 15 miliardi di dollari. Tutto il guadagno netto generato dall’e-commerce di Amazon sarebbe invece legato al marketplace, ovvero le vendite gestite dai negozianti indipendenti presenti sul sito, che avrebbero portato in dote alla società fondata da Jeff Bezos 24 miliardi di dollari di guadagni (sempre nel 2020).

Interpretato attraverso queste cifre, Prime sembra rivelarsi una specie di specchietto per le allodole. «Le perdite legate a Prime e alle vendite dirette sono predatorie», si legge nel report. «Sono uno strumento cruciale attraverso cui Amazon fidelizza i consumatori e mantiene la sua presa sul mercato. Fornendo spedizioni gratuite, video streaming e altri extra per un abbonamento annuale che non copre minimamente le spese sostenute, Amazon ha indotto il 70 per cento delle abitazioni statunitensi a sottoscrivere Prim»”.

I veri guadagni giungono invece grazie ai piccoli e medi negozianti presenti sulla piattaforma, a cui viene trattenuta una percentuale sulle vendite in costante crescita: sempre secondo il report ILSR, nel 2014 Amazon teneva per sé il 19 per cento del volume d’affari generato dai venditori indipendenti, cifra che però ha nel frattempo raggiunto il 34 per cento.

Nel giro di sette anni, insomma, la quota trattenuta è quasi raddoppiata (anche perché i venditori spendono sempre più per pubblicizzare i loro prodotti direttamente sulla piattaforma).

Fidelizzare 

Per Amazon è un circolo virtuoso: il servizio Prime, seppur in perdita, ha lo scopo di fidelizzare i clienti e mantenere il predominio di Amazon nel settore e-commerce, che per i negozianti rimane di conseguenza uno strumento indispensabile per raggiungere i clienti.

In questo modo, Amazon può aumentare la quota trattenuta senza rischiare di essere abbandonata a favore di concorrenti troppo piccoli per rappresentare una vera alternativa.

Scorporato da Prime e dalle vendite dirette, il marketplace di Amazon sarebbe in grado di generare guadagni addirittura superiori a quelli di AWS, da sempre considerato dagli addetti ai lavori il motore principale dei profitti di Amazon. Come detto, nel 2020 il marketplace avrebbe prodotti utili per 24 miliardi di dollari, mentre Amazon Web Services si è fermato a 13,5 (diventati 18 l’anno successivo).

«È una stima basata sulle informazioni disponibili», specifica il report sottolineando come la società fondata da Jeff Bezos non scorpori i risultati.

«Considerato però che le commissioni sui venditori generano più del doppio del fatturato di AWS, e che queste commissioni – come anche le inserzioni su Amazon – hanno costi trascurabili, ci sono validi motivi per ritenere che marketplace sia una fonte di profitti superiore ad AWS»

Profitti, come detto, generati anche aumentando costantemente la percentuale trattenuta ai venditori. Una crescita che ha insospettito il Congresso statunitense, che durante un’audizione ha chiesto conto a Jeff Bezos di questa situazione, il quale l’ha motivata sostenendo che fosse dettata dalla «scelta dei venditori di usare un numero maggiore dei servizi che rendiamo disponibili», facendo riferimento alla possibilità di sponsorizzare a pagamento i propri prodotti e non solo.

Una spiegazione come minimo parziale, visto che ad aumentare sono state anche le commissioni base e che sponsorizzare i propri prodotti su Amazon, per i venditori, spesso non è una scelta ma una necessità.

Lo studio ILSR racconta per esempio il caso di un negozio online chiamato Top Shelf, di cui i ricercatori hanno potuto analizzare l’account utilizzato su Amazon.

Tra commissioni, pubblicità e altro, Amazon tratteneva anche il 46 per cento degli introiti prodotti dal negozio, a cui invece, dopo aver pagato i fornitori, restava soltanto il 13 per cento. A causa anche degli aumenti delle commissioni, il negozio ha smesso col tempo di essere sostenibile e ha infine chiuso.

Il cappio che i venditori si ritrovano attorno al collo è duplice: da una parte sono di fatto obbligati a spendere più soldi in pubblicità a causa degli spazi sempre maggiori che le inserzioni occupano tra i risultati delle ricerche degli utenti (sfavorendo di fatto chi prova a non utilizzarle, una strategia seguita a suo tempo già da Facebook); dall’altra non riescono ad approfittare delle occasioni offerte da altre piattaforme, sia perché troppo piccole, sia perché l’algoritmo di Amazon penalizza fino a oscurare i negozi online che vendono la loro merce a prezzi inferiori su siti concorrenti, che spesso offrono commissioni più basse.

Tutto regolare?

È un comportamento corretto? Non secondo Karl Racine, procuratore di Washington che l’anno scorso ha accusato Amazon, senza successo, di «pratiche anticompetitive» che «alzano artificialmente il prezzo dei beni per i consumatori su tutte le piattaforme di vendita onlin».

Impedendo ai venditori di offrire prezzi inferiori su altri siti, Amazon, secondo l’accusa, si sarebbe assicurata che i suoi prezzi continuino a essere competitivi. Mentre la posizione predominante nel settore le garantisce di non essere abbandonata dai venditori insoddisfatti.

«Amazon ci tiene per la gola», ha dichiarato sempre nel report un imprenditore. «Abbiamo provato a vendere le nostre magliette su Etsy, Poshmark, Instagram, Facebook, Wish, Sears. Abbiamo provato a fare campagne di marketing su Google. Ma anche essendo presenti su molteplici siti vendevamo comunque un decimo di quanto riusciamo a vendere su Amazon. La fetta di mercato che possiedono è tale da produrre risultati del genere».

E pensare che, nelle sue pubblicità, Amazon ha sempre descritto i negozianti presenti sul suo sito come «collaboratori» di cui «ammira lo spirito imprenditoriale».

Una narrazione che non sembra corrispondere alla relazione realmente instaurata, ma che potrebbe essere utile a tenere a bada gli enti regolatori.

In una dichiarazione pubblicata su un blog di Amazon (blog chiamato «supportiamo i piccoli venditori»), la società di Seattle spiega che – nel caso in cui venissero varate nuove e più severe leggi nei confronti di Big Tech – «la nostra capacità di gestire un marketplace destinato ai venditori sarebbe messa in pericolo».

Come dire: pensate di colpire noi, ma in verità state punendo migliaia e migliaia di piccoli commercianti. Stando al report IFLS, si tratta di un bluff: Amazon non potrebbe mai permettersi di chiudere il marketplace. Perché quello non è un servizio gentilmente offerto ai commercianti, ma la fonte principale dei suoi guadagni.

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