La storia dell’umanità è stata segnata dalla guerra, un fenomeno che ha lasciato profonde tracce nella nostra identità collettiva. Nei conflitti in corso come quello tra Russia e Ucraina, la tragedia di Gaza, in Libano, in Sudan o in Mali, solo per citarne alcuni, milioni di persone continuano a dover fare i conti con la violenza.

Nella sua 32ª edizione, che si apre oggi e si concluderà martedì 30 settembre, la Biennale di Pontevedra ha deciso di affrontare questi temi, analizzando le guerre non solo per il loro aspetto bellico, ma come crisi che distruggono il tessuto sociale, emotivo ed economico delle società. Ispirata da pensatori come Rob Riemen e Susan Sontag, l’esposizione propone che, per superare questi conflitti, gli esseri umani debbano “tornare a essere umani”, recuperando la loro capacità di riflessione ed empatia. Attraverso l’arte, la spiritualità e l’immaginazione, questa mostra cerca di offrire una risposta di speranza, invitando alla riflessione e alla “guarigione” collettiva. Rob Riemen descrive la guerra come la «scomparsa di qualsiasi traccia di umanità», di fronte alla quale ci resta, afferma, il ricordo, la nostra prima e più autentica difesa, poiché grazie a esso riconosciamo le forze del male. Allo stesso modo, Susan Sontag, ponendosi «di fronte al dolore degli altri», ha potuto analizzare, partendo dallo shock delle immagini statiche di fotoreporter o artisti, quanto sia terrificante la guerra e come essa possa, nel tempo, diventare qualcosa di normale.

Manuel Casimiro: Tres disparates de Goya, 2025
Manuel Casimiro: Tres disparates de Goya, 2025
Manuel Casimiro: Tres disparates de Goya, 2025

Voci e linguaggi

Oltre le guerre, questo “tornare a essere umani”, proposto da Riemen come risposta ai conflitti, si esplicita nel confronto tra l’umanesimo e il postumanesimo, inizio e fine dell’esposizione. Un umanesimo che non solo promuove una visione del mondo, ma aspira a trasformare il nostro rapporto con l’universo in una danza armonica tra tutti gli esseri e il loro ambiente. In opposizione a un transumanesimo che si erge come tentativo di trascendere i nostri limiti biologici attraverso la tecnologia, utilizzando strumenti come l’intelligenza artificiale e la biotecnologia per riconfigurare la nostra natura.

In una dozzina di spazi distribuiti in tutta la città di Pontevedra, la Biennale propone un incrocio di voci e linguaggi e propone un confronto tra violenza e pace, migrazioni ed esili, così come tra l’oscurità della guerra e la luce della speranza.

Più di sessanta artisti di diversi paesi, inclusi alcuni provenienti da zone di conflitto, partecipano con opere che affrontano temi come la spiritualità, l’amore, la tolleranza, la verità e l’utopia. L’esposizione inizia con i Disastri della guerra di Goya, una serie che stabilisce le basi per esplorare la sofferenza umana e le forme di resistenza alla violenza.

Ma, prima di Goya e della guerra, un contrappunto apre la mostra ponendo in evidenza l’importanza assunta in arte dalla simbologia della luce, una pace evocata attraverso la percezione della vita e della natura, interpretata da artisti come Marina Núñez, Natee Utarit, Olafur Eliasson o Tobias Rehberger, e un passaggio nella Macchina per restaurare l’empatia – che tanto utile dovrebbe essere ai leader che dichiarano guerre – dell’artista ceca Eva Kotatkova.

Dagoberto Rodríguez: Martes, 2024
Dagoberto Rodríguez: Martes, 2024
Dagoberto Rodríguez: Martes, 2024

Resistenza

Tra le conseguenze dei Disastri della guerra – con reinterpretazioni in stile goyesco del portoghese Manuel Casimiro o dell’iraniano Alvin Golrokh – emerge la mitologia dei pionieri del fotogiornalismo di guerra e le loro immagini come testimonianza diretta del conflitto e della resistenza, ben rappresentate dall’ungherese Robert Capa o dalla tedesca Gerda Taro. Immagini di resistenza di artisti provenienti da paesi in guerra, come la turca Zehra Doğan, incarcerata per la sua opera critica, o le palestinesi Emily Jacir e Raida Adon, che trattano l’esilio, l’identità e l’occupazione da una prospettiva intima e poetica, così come gli ucraini Yarema Malashchuk e Roman Khimei o la sudanese Yasmeen Abdulab.

Attraverso metafore, simboli e narrazioni, le opere di questi artisti costruiscono ponti tra le diverse esperienze umane, tra i confini del visibile e dell’invisibile, del reale e dell’immaginato. Cito alcuni esempi di opere specifiche: Antoni Muntadas, Hans Haacke, Taisia Korotkova, Dagoberto Rodríguez, Farida El Gazar, Wardha Shabbir, Almudena Fernández, Francesc Torres, Violeta Quispe, Wang Guangyi, Carlos Bunga, Regina José Galindo, Sophia Al Maria, Miki Leal, Miki Kratsman, e molti altri ancora.

In questo viaggio di riflessione e creazione, il nostro obiettivo è accendere una scintilla di speranza, che spinga l’umanità a ritrovare sé stessa, a ricostruire un futuro in cui la guerra non sia il destino, ma il superamento dell’oscurità attraverso la luce, l’amore e la verità. Solo attraverso questo esercizio di ritorno all’umano, di rivitalizzazione del ricordo e di comprensione profonda, possiamo aspirare a un mondo in cui la guerra non sia la risposta, ma la memoria di una crisi che ci ha insegnato l’importanza dell’essere umani.


Olafur Eliasson: Color Square Sphere, 2007
Olafur Eliasson: Color Square Sphere, 2007
Olafur Eliasson: Color Square Sphere, 2007
Pilar Albarracin: Paloma de guerra, 2018
Pilar Albarracin: Paloma de guerra, 2018
Pilar Albarracin: Paloma de guerra, 2018
Eva Kotatkova: Machine for restoring empathy, 2019
Eva Kotatkova: Machine for restoring empathy, 2019
Eva Kotatkova: Machine for restoring empathy, 2019

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