Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Chi, nel gennaio del ‘94 e nei mesi successivi, non è cambiato affatto, rispetto a quello scorcio finale del ‘92, è il Ros di Mori. E diversi elementi inducono a ritenere che, dopo che Ciancimino ebbe comunicato loro la sua decisione di passare il Rubicone, Mori e De Donno, se non sollecitarono, quanto meno assecondarono il collaborante nello stendere un velo su uno dei suoi due più titolati compaesani, per concentrare l’attenzione sull’altro.

Come già anticipato, è sorprendente che, sebbene l’operazione Ciancimino fosse nata, a loro dire, con lo scopo precipuo di saperne di più sulle strategie criminali di Cosa nostra e acquisire da una fonte ritenuta credibile. per il suo stesso spessore mafioso, informazioni utili ad individuare e catturare i responsabili delle stragi e i più pericolosi latitanti mafiosi in circolazione — contando proprio sul legame di Ciancimino con i suoi “compaesani” — non una sola domanda fu fatta, per tutto il corso della seconda fase della collaborazione che avevano instaurato, sul conto di Bernardo Provenzano.

E lo sconcerto è ancora maggiore se si considera che Ciancimino si era detto disponibile a cooperare senza più remore e supposti o reali vincoli di solidarietà criminale, invitando (De Donno) a dirgli cosa volessero da lui. Ora, nulla da obbiettare sulla scelta di assumere come obbiettivo prioritario la cattura del latitante mafioso n. 1, e cioè Salvatore Riina.

Ma non si comprende come tale scelta impedisse, contestualmente al lavoro di ricerca sulle mappe e sulla documentazione richiesta da Ciancimino, di compulsare quest’ultimo per avere notizie utili alle indagini anche nei riguardi dell’altro corleonese, accreditato peraltro, all’esito del primo maxi processo, di essere il n. 2 dell’organizzazione mafiosa. A meno che — ed alloro sì che tutto avrebbe una spiegazione plausibile — i due obbiettivi non fossero tra loro incompatibili.

De Donno ha spiegato (al processo Mori/Obinu) che erano certi che Ciancimino avesse rapporti stretti con i due boss corleonesi più ricercati, e suoi compaesani. O che, quanto meno, fosse in grado di riaprire in qualsiasi momento canali di comunicazione con i medesimi boss. Ma a loro non interessava affatto che egli confessasse di avere questi rapporti. Questa connessione avrebbe potuto costituire oggetto e materia di successive dichiarazioni all’A.g. se e quando Ciancimino avesse deciso di formalizzare la sua collaborazione.

Ma il loro interesse non era quello di spingere Ciancimino a confessare la sua appartenenza a Cosa nostra o l’avere rapporti con i vertici dell’organizzazione, bensì usare questi rapporti a vantaggio delle indagini. Ma questo era un motivo di più per compulsare Ciancimino sul conto dei suoi compaesani, non per fargli confessare che aveva rapporti con Provenzano o con Riina ma per ricavarne informazioni utili sui loro interessi economici, sui loro spostamenti, sulla possibile rete di favoreggiatori.

Insomma, tutto ciò che poteva essere utile alle indagini mirate alla loro cattura. Invece, silenzio assoluto. Come dire che Ciancimino si impegnava ad aiutarli a catturare Riina purché non gli chiedessero nulla che potesse danneggiare gli altri sodali mafiosi, perché lui non era un delatore come non lo erano i suoi referenti. E in questi termini si comprende come la sua potesse qualificarsi alla stregua di una missione da espletare nell’interesse e per il bene di tutta Cosa nostra.

I rapporti con Ciancimino non vengono meno

D’altra parte, sappiamo che nonostante lo shock di Ciancimino all’atto dello showdown, quando Mori e De Donno gli rivelano quali erano le loro vere intenzioni, la loro collaborazione non si è mai interrotta, pur pRoseguendo su un registro completamente diverso da come lo stesso Ciancimino l’aveva intesa.

E contatti non si sono mai interrotti e Mori personalmente si è adoperato, sia pure con la dovuta prudenza, per perorare alcune delle richieste avanzate da Ciancimino (andando a sondare la Ferraro sulla questione del passaporto; e girando tra l’altro a Ciancimino il secco invito di Violante a presentare una formale richiesta alla Commissione Antimafia, se voleva essere sentito: e la conseguente lettera pervenuta poi brevi manu al Presidente della Commissione antimafia è datata 26 ottobre). Sicché non deve essere passato più di qualche giorno prima che l’ex sindaco di Palermo si decidesse a passare il suo Rubicone.

Inoltre, prima che venisse arrestato, Ciancimino era andato a Palermo per contattare i suoi referenti mafiosi (e naturalmente Mori si era guardato dal monitorarne spostamenti e contatti) e ne era tornato fiducioso di un proficuo sviluppo; e Mori, dopo avere constatato che era davvero in grado di comunicare con esponenti di vertice dell’organizzazione mafiosa, attraverso canali che portavano ai suoi “compaesani”, poteva ragionevolmente confidare che la sua proposta fosse giunta a destinazione: la proposta che senza più infingimenti e paludamenti di sorta aveva avanzato a Ciancimino, e che doveva intendersi come una sollecitazione rivolta ad una componente dell’organizzazione mafiosa che reputava potesse essere interessata e disponibile a disinnescare la Minaccia stragista, neutralizzando lo schieramento mafioso che se ne faceva fautore.

E poiché il pontiere Ciancimino si era mostrato fiducioso e più che mai impegnato a cooperare alla cattura di Riina, Mori poteva dedurne che la proposta non solo fosse giunta a destinazione, ma anche che vi fossero tutti i presupposti perché venisse raccolta. E ora sappiamo che fu così, perché in quella temperie Ciancimino, nel collaborare alla cattura di Riina, era “in missione per conto di Cosa nostra”, anche se non era, ovviamente, la missione che lo stesso Riina aveva inizialmente autorizzato. (E non poteva esserlo perché all’atto della rivelazione fatta da Provenzano ad un esterrefatto Giuffré il Riina era stato già arrestato ad opera di quegli stessi Carabinieri con i quali era intercorsa la presunta trattativa; e quindi, se quelli erano stati i frutti, la missione predetta non poteva essere quella che Riina aveva inteso autorizzare. Inoltre, all’atto di quella sorprendente rivelazione, Provenzano sembrava un’altra persona, perché vagheggiava una strategia che era agli antipodi rispetto a quella imposta da Riina a tutta l’organizzazione. La missione insomma era iniziata con il placet di Riina, ma aveva subito, strada facendo, una sostanziale interversione dei suoi fini).

A questo punto sopraggiunge l’arresto di Ciancimino, in coincidenza però con la soffiata che permette ai Carabinieri di individuare il Di Maggio in quel di Borgomanero, con tutto quello che ne seguì. Ora, Mori poteva sapere o semplicemente sospettare che vi fosse lo zampino di Provenzano in quella soffiata; come poteva non avere alcun elemento di valutazione al riguardo. E ad avere un peso risolutivo al riguardo non possono essere le voci rimbalzate da Catania o la confidenza che il Col. Riccio raccoglie dalla fonte Oriente, e cioè la convinzione di Luigi Ilardo che fosse stato Provenzano a propiziare l’arresto di Riina (non avendo tale confidenza aggiunto alcun elemento concreto che andasse al di là dei rumors che sottotraccia covavano negli ambienti di Cosa nostra); e neppure le convinzioni maturate dallo stesso Giuffré, ragionando e discorrendo con gli altri esponenti mafiosi del suo gruppo.

Fili sottili si legano a Di Maggio (e a Provenzano)

[…] Vicende successive, tuttavia, lasciano intravedere dei fili sottili che sembrano riannodarsi agli aspetti più oscuri dell’arresto del Di Maggio, e alimentare il sospetto che Provenzano vi abbia avuto un ruolo. Si scoprirà infatti che Giuseppe Maniscalco, uomo d’onore della famiglia mafiosa di San Giuseppe Jato, ma divenuto (a partire dal ‘95) confidente del Ros, nonché molto legato al reggente del mandamento, Salvatore Genovese, ritenuto di area provenzaniana (v. infra) era stato colui che aveva avvisato il Di Maggio che Brusca lo cercava per ammazzarlo, inducendolo a riparare al nord.

Il Di Maggio pagò il debito di gratitudine, negando, quando già era divenuto collaboratore di giustizia, che il Maniscalco fosse uomo d’onore; e grazie anche alla decisione di La Barbera e Di Matteo di avvalersi al dibattimento della facoltà di non rispondere, così sostanzialmente ritrattando la chiamata in correità che entrambi avevano formulato nei riguardi del Maniscalco, quest’ultimo fu assolto, in primo grado nel processo a suo carico per il reato di associazione e mafiosa (“Aiello +14”).

E a sua volta, non mancò di ripagare il Di Maggio, dando ai carabinieri, nella sua veste di confidente, delle imbeccate depistanti sulla catena di delitti che e attentati che avevano insanguinato il territorio di San Giuseppe Jato tra la fine del 1996 e il settembre del 1997. Infatti, sebbene le vittime risultassero persone vicine ai Brusca, ne attribuì la paternità a questi ultimi, insinuando che quei delitti fossero funzionali al piano di depistaggio dei Brusca, che era già venuto alla luce nella fase iniziale della loro collaborazione, ma che secondo il Maniscalco persisteva, ed era diretto a screditare i collaboratori di giustizia e in particolare il Di Maggio, facendo ricadere su di lui la responsabilità di quei delitti.

Quando, a seguito dell’ennesimo omicidio, il Maniscalco inizio a collaborare con la giustizia (...), confessò la propria partecipazione ad alcuni di quei delitti oltre che l’appartenenza a Cosa nostra e svelò il disegno ordito dal Di Maggio che aveva raccolto intorno a sé un gruppo di uomini d’onore e soggetti a lui fedeli per riprendersi con le armi il territorio di San Giuseppe Jato, orfano dei Brusca, ma conteso da altri pretendenti (come Vito Vitale, boss di Partinico). […] Certo è che il Maniscalco era legato e devoto al Di Maggio, che a sua volta aveva con lui un debito di gratitudine per avergli salvato la vita; come è certo che lo stesso Maniscalco era a sua volta legato a Salvatore Genovese, e quest’ultimo al Provenzano: non è solo una conoscenza remota del dott. Sabella perché in occasione dell’arresto del Maniscalco gli fu trovato - o lui fece trovare - un bigliettino indirizzato da Bernardo Provenzano al Genovese, con l’invito ad adottare gli opportuni provvedimenti per fare abbassare la cresta a Vito Vitale. E quel bigliettino insieme ad altri rinvenuti in occasione dell’arresto di Giovanni Brusca daranno contezza dell’autenticità dei 14 pizzini dattiloscritti che la fonte Oriente aveva consegnato al Col. Riccio, indicandoli come provenienti dal Provenzano.

Ora, è arduo credere che quest’ultimo potesse accettare tra i suoi più fidati “postini” un soggetto come Giuseppe Maniscalco, che aveva un legame tanto profondo, risalente nel tempo ma più che mai attuale — rispetto all’epoca in cui si prestava a favorire le comunicazioni da e per il boss corleonese latitante - con quel Balduccio Di Maggio passato agli onori della cronaca per essere stato colui che aveva consegnato il capo di Cosa nostra a ai Carabinieri, se lui stesso Provenzano, non fosse stato in qualche misura partecipe o non ostile a quel legame (essendo ancora più arduo pensare che ne fosse totalmente all’oscuro) e ai frutti che aveva generato.

Ma anche se al risultato della cattura di Riina perseguito come priorità anche strategica si fosse pervenuti per una via investigativa autonoma rispetto alla collaborazione intrapresa per il tramite di Ciancimino e frutto di una fortunata concomitanza di fattori, la proposta di “dialogo” restava valida perché la cattura di Riina era una tappa necessaria, ma solo una tappa di un cammino ancora lungo e periglioso. Ed ecco che la mancata perquisizione del covo di Riina, ma anche la contestuale dismissione di ogni attività di intercettazione nei riguardi dei fratelli Sansone, e poi la perdita di interesse per la pista delle mappe che avrebbe potuto portare troppo a ridosso di un pericoloso latitante che tuttavia poteva, in quel contesto temporale, trasformarsi in un prezioso alleato, tornerebbero come tasselli di un disegno coerente.

E quando Vito Ciancimino, che è oramai pronto a tutto pur di non finire i giorni che gli restano da vivere in prigione, si mostra disponibile a riprendere quel lavoro Riinasto in sospeso, i Carabinieri del Ros raffreddano ogni entusiasmo e lasciano letteralmente Morire quella pista, rinunciando persino ad adoperarsi per nuovi colloqui investigativi. (Anche se vi sarà un’appendice investigativa, con la realizzazione, a cura dell’Arma territoriale, circa un anno dopo la richiesta avanzata dalla procura, di rilievi aerofotogrammetrici).

Un’ipotesi coerente ma eccentrica

Ma quand’anche si volesse accedere a questa ipotesi ricostruttiva, di una guerra ibrida, nella quale si profila un’innaturale coalizione di due antagonisti che trescano a distanza o per interposta persona in quanto accomunati dall’interesse a contrastare uno stesso nemico, il rapporto di collaborazione a distanza tra Ros e Provenzano s’iscriverebbe comunque in una prospettiva che non giova affatto all’accusa nei riguardi degli ex ufficiali del Ros, odierni appellanti.

Ne uscirebbe confermato, infatti, che non era negli intendimenti e nei propositi e nelle previsioni di Mori, De Donno e Subranni di avviare un negoziato con i vertici mafiosi per una soluzione politica globale. Si sarebbe trattato, piuttosto, di un’operazione di intelligence finalizzata alla costruzione di un’alleanza ibrida, sotto l’impellenza di ragioni superiori e di una reciproca convenienza di ragioni contingenti e di reciproca convenienza, anche se suscettibili di acquistare un respiro strategico (sotto il profilo dell’auspicato ripristino di un rapporto di non belligeranza o di conflittualità sostenibile tra Stato e mafia).

D’altra parte, v’è cospicua traccia agli atti di questo processo di una prassi consolidata di contatti e relazioni pericolose tra appartenenti alle forze dell’ordine e membri dell’onorata società, soprattutto prima che il fenomeno del pentitismo esplodesse diventando uno strumento formidabile dell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa. Una prassi che peraltro è proseguita anche dopo che quello strumento aveva cominciato a dare, dal maxi processo in poi, i suoi frutti.

Non mancano esempi rilevanti — e Vito Ciancimino non era stato il primo caso e non sarebbe stato l’ultimo - del ricorso a confidenti o addirittura a soggetti, organici o contigui alle cosche, con i quali s’instauravano relazioni ambigue in cui era difficile tracciare una netta linea di confine tra la veste di confidente, o di partner di occasionali scambi di favori (e tale poteva essere anche lo scambio di notizie di reciproco interesse): come nel caso delle fonti del M.llo Lombardo, o nel caso di Siino Angelo; o, più lontano nel tempo, come rammenta Giuffré nel caso di Rosario Riccobono.

Per non parlare delle voci sui rapporti di Madonia Antonino con appartenenti alle forze dell’ordine o ai servizi; o addirittura di esponenti mafiosi che da confidenti si trasformavano in infiltrati per conto dello Stato, ma non del tutto o non ancora passati completamente dalla parte dello Stato: come la fonte Oriente, alias Ilardo Luigi, che da confidente del Col. Riccio fece arrestare non meno di sette pericolosi latitanti ed esponenti delle cosche operanti nella Sicilia orientale, ma nel frattempo saliva i gradini della gerarchia mafiosa, fino al ruolo di vice-rappresentante della provincia mafiosa nissena; o quel Giuseppe Maniscalco, persona legata a Salvatore Genovese, a sua volta reggente del mandamento di San Giuseppe Jato che però, secondo le informazioni in possesso della procura di Palermo, si collocava nell’area provenzaniana.

Il Maniscalco, come s’è visto, pur collaborando come fonte confidenziale con i Carabinieri del Ros, continuava imperterrito a delinquere per conto di Cosa nostra, partecipando anche alla vicenda sanguinosa e nota come “il ritorno in armi” di Baldassare Di Maggio, che alla testa di un gruppo di affiati a lui fedeli, aveva tentato, quando già era collaboratore di giustizia, a suon di attentati e omicidi di riprendere il controllo del territorio di San Giuseppe Jato, approfittando della condizione di estrema debolezza dei Brusca.

E proprio il Maniscalco - che aveva un grosso debito di gratitudine nei riguardi de Di Maggio, che gli aveva procurato un’insperata assoluzione nel processo per il reato di associazione mafiosa e altri gravi delitti, negando che fosse uomo d’onore e inducendo anche La Barbera e Di Matteo a ritrattare o comunque a non ripetere al dibattimento le dichiarazioni accusatorie che avevano reso nei suoi confronti nella fase delle indagini; e il Di Maggio, a sua volta, era grato al Maniscalco per avergli in pratica salvato la vita avvisandolo che Brusca lo cercava per ammazzarlo – aveva depistato i carabinieri, dando loro false imbeccate che facevano ricadere su Brusca e sugli uomini d’onore rimasti a lui fedeli, la paternità di quella catena di delitti: come poi lui stesso ammise, quando, sottoposto a fermo dopo l’ennesimo omicidio (Arato Vincenzo, uomo dei Brusca), iniziò subito a collaborare.

E fece trovare, tra l’altro un pizzino di Provenzano che era diretto a Salvatore Genovese, con delle frasi che suonavano come un invito a prendere provvedimenti contro Vito Vitale, accusato di avere “invaso” un territorio, come quello di San Giuseppe Jato che non gli apparteneva.

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