Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Certo è che la testa di Riina venne servita (quasi) su un piatto d’argento. Ed era proprio questo uno dei principali risultati cui era diretta l’operazione Ciancimino, secondo la narrazione di Mori e De Donno. E non ci si riferisce tanto alla fase finale, e cioè all’operazione scattata a seguito degli input forniti dal pentito Di Maggio e tradottasi in una serie di azioni condotte da personale dei gruppi I e 2 del N.o. dei Carabinieri, della sezione Anticrimine e della I sezione del I reparto investigativo del Ros di Roma; quanto alle provvidenziali soffiate che avevano indotto già mesi prima i carabinieri, da un lato, a mettersi alle calcagna dei Ganci; dall’altro, e nel medesimo torno di tempo, a porsi alla ricerca di Baldassare Di Maggio, con congruo impiego di risorse, pur essendo questi pressoché sconosciuto agli inquirenti e incensurato, o comunque non attinto da alcuna misura restrittiva.

Tuttavia, una fonte confidenziale evidentemente molto ben informata lo additava come esponente di rilievo del mandamento mafioso di S. Giuseppe Jato, già autista di Salvatore Riina e costretto a riparare nel nord Italia causa di contrasti con Giovanni Brusca che gli avevano fatto temere di poter essere ucciso (circostanze confermate come sappiamo dallo stesso Brusca).

La versione di Balsamo

Secondo la versione ufficiale resa dai carabinieri (e in particolare dal tenente colonnello Balsamo) al processo Mori/De Caprio, l’interesse investigativo a rintracciare il Di Maggio scaturiva dalla convinzione che questi avrebbe potuto rappresentare una preziosa occasione per futuri spunti investigativi, anche e soprattutto nella direzione della cattura dello stesso Brusca. Si ipotecava quindi, ma non si capisce sulla base di quali ulteriori indicazioni, una disponibilità del Di Maggio a collaborare, se fosse stato rintracciato.

E sempre una preziosa soffiata avrebbe consentito di individuare in Borgomanero, piccolo borgo in provincia di Novara, il luogo in cui il Di Maggio si era rifugiato, approfittando dell’ospitalità di un suo compaesano e conoscente, Natale Mangano, che era titolare di un’officina meccanica. Ed era tale l’interesse a monitorare il Di Maggio che le utenze telefoniche del Mangano furono sottoposte ad intercettazione.

Finché venne captata, l’8 gennaio, una telefonata nella quale sembrava farsi riferimento ad un’attività di narcotraffico che avrebbe indotto i carabinieri — non si capisce con quale coerenza rispetto alle finalità dell’indagine — a irrompere nell’officina del Mangano, dove non si trovò alcuna traccia del supposto narcotraffico, ma in compenso venne trovato proprio il “ricercato” Di Maggio, e arrestato perché trovato in possesso di un’arma clandestina.

E Di Maggio, appena condotto in caserma, manifestò una grande agitazione, riferendo che temeva per la sua vita ed era disposto a fornire informazioni preziose per le indagini in Sicilia e soprattutto in merito a Salvatore Riina.

I carabinieri di Novara ne informarono i colleghi del gruppo 2 del N.o. di Palermo e la stessa sera l’allora Magg. Balsamo, unitamente al M.llo Merenda giunsero presso la caserma in cui il Di Maggio era trattenuto, scoprendo che aveva già iniziato a dialogare con il generale Delfino.

Di Maggio, infatti, aveva chiesto di poter parlare con il più alto ufficiale in grado, ottenendo di avere un primo colloquio con il generale Delfino, che non ne avrebbe avuto alcuna competenza nella sua qualità di comandante delle regioni Piemonte e Valle d’Aosta, ma che, secondo quanto dallo stesso dichiarato, stava conducendo da mesi una sorta di indagine parallela sullo stesso Di Maggio.

Infatti, all’atto del suo insediamento come comandante dell’Arma per le regioni Piemonte e Valle d’Aosta (6 settembre 1992) era stato informato dal comandante provinciale di Novara che già dal mese di giugno — a suo dire — erano in corso indagini, sollecitate dai carabinieri di Monreale, per rintracciare tale Di Maggio, indicato da fonte confidenziale come soggetto in grado di fornire notizie utili su Giovanni Brusca che ne aveva ordinato, probabilmente, l’eliminazione.

E qui si sarebbe accesa una lampadina nella testa del Delfino, che si sarebbe ricordato di avere diretto tre anni prima, quale vice comandante della Legione di Palermo, un’operazione in contrada Ginostra, territorio di San Giuseppe Jato, mirata a localizzare e perquisire una lussuosa villa che fonte confidenziale aveva indicato come nella disponibilità di Baldassare Di Maggio, già autista di Riina che forse era ospitato in quella villa.

La perquisizione aveva avuto esito negativo, né si erano rinvenuti riscontri alle informazioni confidenziali. Ma il dato era stato memorizzato dal Delfino, che ritenne di poter collegare la presenza del Di Maggio in Piemonte all’essersi ivi rifugiato lo stesso Riina (un clamoroso quanto provvidenziale errore di valutazione perché è processualmente accertato che Di Maggio era fuggito a Borgomanero grazie ad una soffiata di Maniscalco Giuseppe — che si saprà in seguito essere una fonte confidenziale del Ros — il quale lo aveva avvisato che proprio Riina ne aveva decretato la soppressione45).

Perciò aveva deciso di attivare in tutta segretezza un gruppo di investigatori con il compito di ricercare eventuali tracce della presenza del boss corleonese in territorio piemontese, ma senza riferire a nessuno l’episodio del 1989 (cfr. pag. 16 della sentenza Mori/De Caprio). E un riscontro ad uno specifico interessamento del generale Delfino alle indagini per la cattura di Riina, fin dall’estate del ‘92 parrebbe venire dalla testimonianza di Claudio Martelli che data alla fine di luglio ‘92 o primi di agosto e comunque dopo la strage di via D’Amelio una visita del generale Delfino che gli comunicò tra l’altro che entro dicembre, gli avrebbero fatto un bel regalo di natale con la cattura di Riina (“Presidente, stia tranquillo, glielo prendiamo noi Totò Riina, glielo poniamo noi prima di natale”).

Sempre secondo quanto ricostruito dai giudici del processo Mori/De Caprio sulla base della deposizione che il generale Delfino (non esaminato al dibattimento per motivi di salute) aveva reso il 21 febbraio 1997 alla Corte d’Assise di Caltanissetta, i Carabinieri di Novara avevano proseguito le ricerche sul Di Maggio; e a dicembre il comandante provinciale aveva informato Delfino che erano riusciti a localizzarlo a Borgomanero (per inciso, è la seconda coincidenza temporale con gli sviluppi della vicenda Ciancimino: perché a dicembre ‘92, ovvero alla vigilia del suo arresto.

Vito Ciancimino ebbe a produrre il massimo sforzo per mettere in atto la collaborazione che aveva deciso di intraprendere senza riserve con i Carabinieri, sia richiedendo una specifica integrazione della documentazione che già gli era stata fornita da De Donno per localizzare il covo di Riina; sia scendendo a Palermo per incontrare i suoi referenti o intermediari mafiosi al fine di ricavarne informazioni utili alle indagini. E a dicembre si sarebbe incontrato, a Roma, con Pino Lipari).

Il generale Delfino, appena informato che Di Maggio aveva dichiarato di potere fornire informazioni su Riina e aveva chiesto di parlare con l’ufficiale più alto in grado, s’era precipitato in caserma ed aveva iniziato a raccogliere le “spontanee dichiarazioni” del Di Maggio, prima dell’arrivo del Magg. Balsamo (che, secondo quanto si legge a pag. 16 della sentenza Mori/De Caprio, avrebbe faticato per convincere i colleghi di Novara a riconoscere la competenza del N.o. di Palermo in ordine alle indagini che erano state avviate e all’arresto che ne era conseguito).

I pur scarni e frammentari elementi desumibili dalla non facile ricostruzione operata dalla citata sentenza dei fatti che avevano portato all’arresto di “Balduccio” Di Maggio non possono che suscitare il dubbio che qualcosa non torni, fermo restando che si è accertato che gli input sull’interesse investigativo per la figura dello stesso Di Maggio erano venuti da una fonte confidenziale che doveva essere molto bene informata, ed evidentemente interna all’organizzazione mafiosa.

La versione di Violante e la “carriera” di Delfino

Per completezza va rammentato che la versione che dinanzi a questa Corte l‘On. Violante ha dichiarato di avere appreso, praticamente in tempo reale rispetto agli avvenimenti in corso, dalla viva voce del generale Delfino — con il quale peraltro già all’epoca non gradiva avere contatti diretti — è, anche al netto del lapsus sulla località in cui fu rintracciato Di Maggio (che non è Verbania, come ha dichiarato il teste, bensì Borgomanero), sensibilmente diversa da quella processualmente acquisita nel processo Mori/De Caprio. Essa oscura del tutto le pregresse indagini del gruppo 2 del N.o. Carabinieri di Palermo, ed enfatizza i profili di assoluta occasionalità e accidentalità dell’arresto del Di Maggio, avvalorando ulteriormente il sospetto di una messinscena (“Quindi come dire che qualcuno andasse da Palermo a Verbania, e si facesse prendere per dire guardate vi metto.., aveva l‘impressione come di una cosa in qualche modo costruita”).

Ora, il generale Delfino (o ex generale, poiché ha ingloriosamente concluso la sua carriera subendo l’orna della degradazione a soldato semplice), calabrese e originario di Platì, con un passato nei ranghi del Sismi, non è una figura che, per i suoi trascorsi giudiziari e i legami intrattenuti a dire di alcuni collaboratori di giustizia con esponenti di spicco della ’ndrangheta calabrese (cfr. Cuzzola che ha riferito dei suoi rapporti con i fratelli Papalia e lo accusa tra l’altro di avere avvisato prima Domenico e poi, su richiesta di questi, anche il fratello Antonio, che Saverio Morabito aveva deciso di collaborare con i magistrati; e Fiume Antonino, che ha dichiarato di essere stato testimone oculare di un incontro del Delfino con Rocco Papalia, nell’ufficio di questi) possa rassicurare più di tanto o fugare qualsiasi sospetto sul vero ruolo che potrebbe avere avuto nell’individuazione e nell’arresto del Di Maggio, intromettendosi in un’indagine in corso e della quale, teoricamente, non aveva alcun titolo e motivi di occuparsi (non essendo per il suo grado e per le funzioni e il comando di cui era investito, un ufficiale di polizia giudiziaria).

Tra l’altro, secondo quanto emerso in questo processo, all’indomani delle stragi in continente, l’allora Capitano Giraudo che all’epoca si occupava delle indagini sulla strage di P.zza Della Loggia a Brescia (delitto per il quale Delfino, accusato di avervi concorso insieme a Delfio Zorzi, Mario Tramonte, Carlo Maria Maggi e altri, è stato processato e assolto con sentenza definitiva) fu convocato dal generale Subranni nel suo ufficio e informato che il Ros stava lavorando ad una pista che portava al Delfino come possibile mandante e organizzatore a livello superiore degli attentati mafiosi commessi nel territorio nazionale, additandolo come ufficiale dell‘Arma particolarmente pericoloso.

Solo una congettura

Ma, al di là delle coincidenze temporali prima ricordate, che vi sia un link con la collaborazione parallelamente intrapresa da Vito Ciancimino resta una congettura confortata da scampi appigli processuali, come le dichiarazioni di Tullio Cannella che sostiene di avere appreso da Bagarella che Provenzano aveva rapporti con Ciancimino e quest’ultimo a sua volta con il generale Delfino, che quindi poteva essere raggiunto da Provenzano attraverso Ciancimino (Cannella non è stato poi in grado di precisare quale indicazione avrebbe ricavato da sue assente conversazioni in carcere con lo stesso Ciancimino che possano confermare l’assunto di Bagarella, al di là di fumosi riferimenti alla comune appartenenza — di Ciancimino e di Delfino – ad ambienti massonici).

Va anche rammentata, a onor del vero, una terza coincidenza temporale.

Ai primi di gennaio, e veRosimilmente pochi giorni prima di quel fatidico 8 gennaio 1993 in cui i Carabinieri di Novara fanno irruzione nell’officina meccanica di Borgomanero, trovandovi e arrestando Baldassare Di Maggio, Vito Ciancimino fa sapere attraverso il suo nuovo difensore, l’avv. Ghiron che ha urgenza di avere un colloquio riservato con lo stesso Mori.

È quest’ultimo a rammentano nelle sue spontanee dichiarazioni, che per questa parte riproducono il memoriale del l’agosto ‘97, anche se non riesce a precisare se accadde poco prima o poco dopo l’arresto di Riina. In realtà, sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso Mori, la richiesta di Ciancimino deve farsi risalire a prima ancora del 10 gennaio 1993, giorno in cui Mori ebbe ad incontrare il procuratore Caselli, che diii a poco si sarebbe insediato nel posto di capo della procura della Repubblica di Palermo.

Ed era già sua intenzione informarlo dei contatti che aveva avuto con Ciancimino proprio perché intendeva chiedere l’autorizzazione ad un colloquio investigativo con Vito Ciancimino, avendo raccolto la sollecitazione in tal senso veicolatagli dall’avv. Ghiron (“nel gennaio 1993, non ricordo se prima o dopo la cattura di Salvatore Riina, fin contattato dall ‘avv. Giorgio Ghiron, difensore di Vito Ciancimino, il quale mi comunicò che il suo cliente desiderava incontrare me e il capitano De Donno. A questo punto, resi informalmente edotto di tutta la vicenda il procuratore della Repubblica di Palermo, dr. Giancarlo Caselli e concordai la richiesta di un colloquio investigativo con ciancimino”).

Come già sappiamo, il dr. Caselli nega di essere stato informato dell’operazione Ciancimino quando incontrò a Torino l’allora Col. Mori, perché l’incontro era previsto per tutt’altro oggetto e non vi lii tempo di parlare d’altro se non delle decisioni da prendere dopo che il generale Delfino l’aveva edotto degli avvenimenti di Borgomanero. E fu lo stesso Caselli a esigere che Mori partecipasse all’incontro con Delfino per i ragguagli sul caso, e per pianificare i successivi sviluppi investigativi.

Il colloquio investigativo sollecitato da Ciancimino vi fu, ma solo il 22 gennaio, una settimana dopo l’arresto di Riina (circostanza che non mancò peraltro di insospettire Liliana Ferraro, come lei stessa ha dichiarato, precisando che tuttavia non ritenne di darvi troppo peso, dando per scontato, anche se non ne chiese conferma al dr. Caselli, che il nuovo procuratore della Repubblica di Palermo, appena insediatosi, ne fosse al corrente. E in effetti, nelle settimane successive le risulta che furono effettuati altri colloqui e interrogatori di Ciancimino sotto il controllo della procura di Palermo). Ma è davvero un filo troppo esile per collegare l’urgenza di Ciancimino di avere un colloquio con Mori e De Donno, che poteva essere semplicemente propedeutico alla sua decisione di aprirsi ad una più ampia collaborazione anche con l’A.g., con i contestuali fatti di Borgomanero.

La mancata perquisizione del covo di Riina come segnale rassicurante

È innegabile però che la mancata perquisizione del covo di Riina, se non fu soltanto il frutto di dabbenaggine, o di discutibili scelte investigative mescolate a corto circuiti nelle attività di informazione e coordinamento dei vari reparti investigativi operanti sul campo e una sequela di incomprensioni e malintesi, appare perfettamente in linea con il tenore della proposta che era stata brutalmente rivolta a Vito Ciancimino all’atto dello showdown, in occasione dell’ultimo degli incontri con Mori (quello del 18 ottobre, secondo il timing ricavato dalle agende dello steso Mori).

Essa diede infatti la possibilità di ripulire il covo e quindi cancellare ogni possibile traccia e documentazione che potesse aiutare gli inquirenti a individuare soci in affari, complici del Riina, i suoi rapporti con altri affiliati e i suoi favoreggiatori: dandosi così corso all’impegno dei carabinieri di avere un occhio di riguardo per le “famiglie” dei latitanti arrestati (ovvero: che si fossero auto-consegnati, nella versione decisamente improbabile di Mori e De Donno; o che fossero stati consegnati ai Carabinieri, secondo la più plausibile versione di Ciancimino).

E quali che fossero le circostanze e fortunate contingenze che avevano condotto all’arresto del capo di Cosa nostra — e quindi anche ammettendo che Ciancimino non vi avesse avuto alcun ruolo — l’omessa perquisizione avrebbe conservato intatto il suo significato di segnale rassicurante lanciato alla componente mafiosa con cui si voleva instaurare un dialogo, per confermare tale volontà di un’interlocuzione finalizzata a raggiungere un’intesa che, in tale prospettiva, la cattura di Riina non avrebbe pregiudicato, rendendola anzi più agevole. Sul versante opposto, le difese degli ufficiali del Ros e quelle di Mori e De Donno in particolare, protese a dimostrare che l’operazione Ciancimino fu soltanto un’iniziativa di polizia giudiziaria; che non vi fu mai alcun intento di negoziare con chicchessia; e tanto meno si sollecitarono da parte dei Carabinieri, intese o accordi con Provenzano per la cattura di Riina, formulano una precisa obbiezione: se davvero Provenzano avesse giocato un ruolo nella cattura di Riina, con l’intermediazione del “pontiere” Ciancimino, non avrebbe avuto bisogno delle mappe invocate dallo stesso Ciancimino come mezzo per arrivare ad individuare il covo in cui Riina si nascondeva (in realtà non si nascondeva affatto, ma vi abitava con tutta la sua famiglia), perché ne era già a conoscenza, essendo uno dei pochi ammessi al suo cospetto.

In realtà, come già s’è visto, una più attenta lettura delle dichiarazioni dimostra che Brusca non può né confermare né smentire che Provenzano sapesse dove abitava Riina, perché ciò non gli consta personalmente e nessuno gli ha mai dato un’informazione del genere.

Ciò che gli consta con certezza è che Provenzano poteva incontrare in qualsiasi momento Riina perché conosceva i soggetti che ne tutelavano la latitanza ed ai quali rivolgersi per organizzare eventuali incontri, così come faceva lo stesso Brusca che in effetti non sapeva, negli ultimi tempi almeno, dove il capo di Cosa nostra abitasse.

Ed una clamorosa conferma è venuta proprio in questo processo dalla viva voce di Salvatore Riina. Questi, infatti, in una delle conversazioni intercettate al carcere di Opera, vanta la sua astuzia e la sua prudenza nell’interdire a tutti l’accesso alla sua abitazione (tranne a Raffaele Ganci) e nel blindare con rigore teutonico (Sì, no per ste cose un tedesco era) la conoscenza del luogo in cui era ubicata: e si lascia scappare che neppure “Binnu” e i Madonia ne era a conoscenza (cfr. intercettazione del 6 agosto 2013: […]). In effetti, c’erano anche altri soggetti che curavano direttamente l’assistenza al qualificato latitante, come il giardiniere e autista Di Marco, che accompagnava i figli a scuola; e Salvatore Biondino, e naturalmente i Sansone che avevano messo a disposizione l’abitazione all’interno del residence costruito da una foro impresa.

Ma Provenzano non era tra coloro che ne erano a conoscenza, e poteva al più sapere dei Sansone e dei Ganci, e quindi della zona in cui veRosimilmente era ubicata l’abitazione del suo illustre compaesano, ma niente di più. Il ricorso alle “mappe” non esclude dunque, la possibilità di un coinvolgimento del Provenzano nel tentativo messo in atto da vito Ciancimino di pervenire per tale via all’individuazione del covo di Riina; ma neppure lo prova. […]. E deve convenirsi che il discorso delle mappe, da integrarsi con una documentazione relativa a utenze Amap ed Enel che solo in parte sarebbe stata consegnata al Ciancimino, è una sorta di buco nero nella ricostruzione della vicenda della tortuosa collaborazione clandestina intrapresa dalI’ex sindaco di Palermo con i Carabinieri del Ros.[...].

Il “lavoro rimasto in sospeso” 

Orbene, l’insistenza con cui Vito Ciancimino nei suoi scritti torna ad insistere sull’utilità e soprattutto sull’attualità, dal punto di vista investigativo, anche dopo l’arresto del Riina, di quel lavoro rimasto in sospeso, e l’interesse manifestato dai magistrati della procura di Palermo — e segnatamente il procuratore Capo Caselli e il sost. Ingroia — per gli input rilanciati dallo stesso Ciancimino, di cui v’è evidente traccia nella delega d’indagine del 25 gennaio 1994 e nelle successive Note di sollecito al Ros dovrebbero bastare a fugare il dubbio che quella delle mappe planimetrie (e utenze per le forniture di luce e acqua) fossero solo una messinscena per dissimulare un contributo di altra natura alla cattura di Riina, cui l’ex sindaco di Palermo aveva deciso di cooperare.

Resta però da spiegare, non volendo prendere in considerazione e neppure fare cenno delle elucubrazioni e manipolazioni di una fonte inaffidabile qual è Massimo Ciancimino, che fine abbiano fatto quelle mappe - su cui peraltro Ciancimino senior avrebbe fatto delle annotazioni, se è vero che, come si legge negli appunti citati, aveva segnato o indicato alcune vie - e l’ulteriore documentazione a suo tempo consegnata al collaborante. E come sia possibile che Mori e De Donno non ne abbiano conservato copia agli atti del proprio Ufficio, considerato che su quella documentazione, stando al loro racconto, investivano ogni residua Speranza di ricavare un risultato utile (e che risultato: la cattura del capo di Cosa nostra) da tutta l’operazione Ciancimino.

Ma non v’è alcuna possibilità di ricevere dai due ufficiali del Ros una spiegazione che solo loro potrebbero dare, perché per anni hanno insistito in una versione, quella secondo cui la documentazione in questione sarebbe stata trovata e trasmessa all’A.g., che si è rivelata non rispondente al vero.

Ma soprattutto resta da spiegare l’improvvisa e definitiva perdita d’interesse di Mori per quella pista investigativa di cui, non a torto, come fra breve si vedrà, Vito Ciancimino propugnava la fecondità, ancora un anno dopo l’arresto del latitante corleonese più ricercato, nella convinzione che gli immobili che insistevano in una certa zona (tra Palermo e Monreale) potessero ancora essere adibiti a covo di altri pericolosi latitanti corleonesi.

Né era tanto difficile presumere a quali corleonesi doc latitanti di spicco lo stesso Ciancimino potesse fare riferimento, nel gennaio del ‘94, quando, grazie alle rivelazioni di Salvatore Cancemi, ogni residuo dubbio che Provenzano potesse essere morto (ammesso che il Ros avesse mai condiviso questo dubbio di matrice giornalistica) s’era dissolto. Peraltro, questa perdita d’interesse a coltivare la “pista delle mappe” si era registrata, inopinatamente, anche prima che si giungesse alla cattura del capo di Cosa nostra.

L’arresto di Vito Ciancimino, che aveva impedito la prosecuzione della ricerca intrapresa con l’ausilio di quelle mappe da integrarsi con l’ulteriore documentazione richiesta dallo stesso Ciancimino, non era un ostacolo insormontabile: anzi, avrebbe dovuto indurre Mori e De Donno ad attivarsi subito per essere autorizzati — e la competenza era del ministero e non della procura — a un colloquio investigativo che poteva servire oltretutto per rimediare allo strappo causato dall’inopinato arresto al rapporto di fiducia che si era instaurato con il potenziale collaboratore di giustizia.

Invece, Mori attese che fosse Ciancimino a farsi vivo attraverso il suo avvocato (ciò che avvenne, con tutta probabilità, poco prima del 10 gennaio, ma comunque prima lo stesso Mori incontrasse Caselli a Torino e che questi lo invitasse a partecipare al briefing con il generale Delfino sull’arresto del Di Maggio e sui possibili sviluppi).

La spiegazione offerta da De Donno (al processo Mori/Obinu) è che ritennero di poter aspettare qualche settimana, prima di andare a compulsare Ciancimino per riprendere il lavoro di ricerca sulle mappe mediante colloquio investigativo, essendo ormai alle viste l’insediamento del nuovo procuratore capo a Palermo. Una spiegazione discutibile, posto che il rischio che un latitante di quello spessore usasse l’accortezza di cambiare spesso il proprio rifugio non era trascurabile.

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