Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Ed è altrettanto evidente che, dopo l’eliminazione del giudice Falcone, il dott. Borsellino era divenuto l’obbiettivo primario, anche, ma non soltanto, per il valore simbolico associato alla sua figura; ed era lui stesso il primo, come s’è visto ad averne consapevolezza.

Sicché l’assunto secondo cui un intervallo di 57 giorni era troppo breve per non tradire qualche evento sopravvenuto medio tempore che imponesse di affrettare i tempi, potrebbe essere rovesciato nel suo esatto contrario: era un intervallo di tempo anche troppo lungo, se è vero, come pure è provato, che Cosa nostra aveva la capacità e i mezzi per sferrare un secondo micidiale colpo contro colui che, nell’immaginario mafioso, ne era divenuto, dopo la morte di Falcone, “il nemico numero uno”.

Le dichiariazioni di Cancemi e la “fretta” di Riina

E allora ciò basterebbe a spiegare la fretta che secondo Cancemi trapelava dai toni perentori con cui Riina, in quella riunione (ristretta) che il dichiarante colloca nell’ultima decade di giugno ‘92, e nel corso della quale si ripeté il nome di Borsellino tra gli obbiettivi da colpire, ebbe a rammentare a Faluzzo (cioè a Raffaele Ganci, capo della famiglia mafiosa della Noce, i cui uomini sarebbero stati poi impiegati nelle attività preparatorie e poi nel pattugliamento delle zone di interesse per l’esecuzione del delitto) che “la responsabilità è mia”, alludendo alla necessita di procedere senza indugio all’uccisione di Borsellino «E quindi io mi ricordo in quella riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, quindi la cosa più forte che mi è rimasto è che si appartò, diciamo, sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c'era là, con Riina e io c'ho sentito dire: “La responsabilità è mia”. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: “Questo ci... ci vuole rovinare a tutti”, quindi la cosa era... il riferimento era per il dottor Borsellino […] Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa... di una cosa veloce, aveva.., io avevo intinto questo, che il Rima questa cosa la doveva.., la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno».

Lo stesso Cancemi dà, di quella premura, una lettura diversa e non del tutto, anzi, per nulla convergente con le conoscenze sciorinate da Giovanni Brusca circa ragioni e finalità che accomunavano le due stragi. Ma anche l’espressione testuale profferita da Riina e che tanto aveva impressionato Cancemi (“La responsabilità è mia”) poteva essere, molto più semplicemente, un modo per tagliare corto, rispetto alle perplessità magari anche solo tacitamente manifestate dal Ganci, facendogli presente che era sua la responsabilità di quella scelta (cioè di agire subito) e quindi non c’era da discutere.

Di contro, attendere per un tempo indefinito avrebbe diluito l’effetto di sgomento e smarrimento prodotto dalla strage di Capaci, consentendo sia all’opinione pubblica che allo stato di assorbire il colpo; e dando al Governo e agli apparati di polizia il tempo di serrare le fila e attrezzarsi per una risposta adeguata, con la conseguenza di rendere più difficoltosa l’esecuzione della nuova strage e meno efficace il suo effetto intimidatorio.

È plausibile poi che lo straordinario successo (“successo” ovviamente per i mafiosi) dell’impresa di Capaci, e la debolezza della reazione da parte dello stato che è attestata dalle polemiche esplose fin dalle prime ore successive all’eccidio di via D’Amelio (che porteranno a indignate proteste e denunce di gruppi politici, associazioni della società civile, organizzazioni sindacai, semplici cittadini, oltre a varie iniziative di protesta dei magistrati: v. infra) e che sono documentate dalle cronache del tempo, abbiano concorso, unitamente alla sicurezza che derivava ai corleonesi dall’impunità immancabilmente seguita ai tanti delitti eccellenti, stragi comprese, che avevano commesso in precedenza ed anche in anni non lontani, a rafforzare la convinzione e la previsione di Riina — una previsione che i fatti si sarebbero di lì a poco incaricati di smentire — che un secondo mortale colpo, lungi dal provocare una reazione veemente da palle dello stato, ne avrebbe stroncato ogni velleità di resistenza alla violenza mafiosa e lo avrebbe ridotto in ginocchio, ancora di più di quanto non lo fosse già dopo Capaci.

Insomma, se di una guerra si trattava, bisognava incalzare il nemico fino a quando non avesse ceduto, o almeno non avesse manifestato segni di cedimento mostrandosi disponibile a negoziare la pace. Proprio come recitava il proposito che, parafrasando il noto brocardo latino, Filippo Malvagna attribuisce a Riina e che riassume l’essenza della strategia stragista ordita dai corleonesi: qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace (frase che suona come un’evidente parafrasi del noto brocardo latino, facendo persino pensare a un’intelligenza più raffinata di quella di Riina come fonte d’ispirazione e che lo stesso Riina avrebbe pronunziato, secondo quanto il Malvagna dice di avere appreso dallo zio, Pulvirenti Giuseppe, in occasione della riunione della Commissione regionale di Cosa nostra, tenutasi ad Enna all’inizio del 1992).

"Ci volevano i morti”

E le modalità eclatanti di commissione del delitto in questione, tali da provocare spargimenti di sangue, non importa se anche a danno di vittime innocenti, non erano solo funzionali a massimizzare il terrore della violenza mafiosa e dare prova della terrificante potenza di cui Cosa nostra era capace, perché (al contrario di quanto può ritenersi per le stragi in continente) “ci volevano i morti”, per costringere lo stato a trattare: come abbiamo appreso dalla viva voce di Salvatore Riina, nella conversazioni intercettata il 18 agosto 2013 al carcere di Opera [...].

Se poi è vero che le previsioni di Riina furono un calcolo sbagliato sull’intensità della reazione che lo stato, ma anche l’opinione pubblica sarebbero stati in grado di opporre alla violenza mafiosa, è possibile che a questo clamoroso errore di calcolo abbiano concorso altri fattori, oltre a quelli già accennati, come la debolezza congenita del Governo Amato e le impegnative emergenze che si trovava simultaneamente ad a fronteggiare.

E tra questi fattori, anche le rassicurazioni che già prima della strage di Capaci sarebbero state date a Riina dai personaggi influenti con cui egli si era incontrato nel periodo di gestazione di quella strage, secondo il breve cenno che ne fece Cancemi nell’interrogatorio del 15 marzo 1994.

Un racconto succinto che non sembra lasciare spazio alla conoscenza da parte dello stesso Cancemi di chi fossero quegli autorevoli personaggi; e che deve quindi vagliarsi al netto di tutti i dubbi sull’attendibilità delle tardive rivelazioni che avrebbe fatto solo alcuni anni dopo, quando indicò i nomi di Berlusconi e Dell'Utri a proposito dell’identità degli autorevoli personaggi del mondo politico e imprenditoriale da cui Riina avrebbe ricevuto la garanzia che si sarebbero impegnati a portare a buon fine le istanze di Cosa nostra. E tuttavia, residua da quel racconto la certezza, condivisa da Riina con i suoi più fedeli luogotenenti proprio in ragione dei rapporti che lo legavano a non meglio specificati personaggi influenti esterni a Cosa nostra, che lo stato non avrebbe reagito.

Anche se, sempre Cancemi, è stato altrettanto chiaro nel precisare che quella convinzione era circoscritta a Riina e a quello che all’epoca poteva definirsi come il suo cerchio magico di capi mandamento più fedeli e sanguinari, mentre tra le fila del popolo d Cosa nostra serpeggiavano dubbi e preoccupazioni: […]. E che una qualche forma di rassicurazione — o più d’una — fossero state date a Riina, e allo stesso Provenzano prima delle due stragi, lo lascia intendere anche Antonino Giuffré’. Questi, all’udienza del 28.11.2013, alla domanda se gli risultasse che Cosa nostra, prima di accingersi a delitti eccellenti come quelli di Falcone e Borsellino, si preoccupasse di verificare le possibili ripercussioni di delitti del genere in ambienti qualificati ed estranei a Cosa nostra, ha dato una risposta eloquente, sottolineando come la commissione di un delitto eccellente, soprattutto quando siano in gioco rilevanti interessi economici che vanno oltre Cosa nostra per investire importanti ambienti imprenditoriali, richiede una preliminare verifica del grado di isolamento (alludendo all’isolamento all’interno delle istituzioni) del soggetto da colpire: «Quando si parla di isolamento degli individui che poi devono essere colpiti, è sotto inteso che c’è tutto un lavoro antecedentemente prestabilito per quanto riguarda un determinato omicidio eccellente.

Appositamente viene sempre più montata la pericolosità non solo nel contesto mafioso, ma in oggetto a questi discorsi che, in modo particolare stiamo parlando di interessi economici che vanno oltre gli interessi di Cosa nostra, che vanno nel mondo imprenditoriale, diciamo che è un discorso portato avanti di isolamento, di delegittimazione da parte degli interessati, quali il dottore Falcone, il dottore Borsellino o anche altri delitti più o meno eccellenti. C’è un discorso di isolamento e poi vengono... quando si reputa che questo lavoro è stato fatto bene, viene eseguita la sentenza».

“Sondaggi preliminari” con persone importanti

Ma ancora più esplicito era stato al “Borsellino quater”, parlando di sondaggi preliminari, effettuati con persone importanti del mondo economico e politico. E sia Falcone che Borsellino, scrivono i giudici del Borsellino quater richiamando le dichiarazioni di Giuffré, erano pericolosi non solo per Cosa nostra, ma anche per quegli ambienti politici e imprenditoriali che erano interessati a convivere pacificamente e proficuamente con Cosa nostra, facendo lucRosi affari con i mafiosi. E non era estraneo a questa “contaminazione” il mondo delle professioni, con le più disparate categorie di persone (come commercialisti, medici, professori e, aggiunge Giuffré, servizi più o meno deviati).

Questi “sondaggi” preliminari suscitarono la convinzione che Falcone e Borsellino fossero personaggi scomodi ed invisi anche alloro mondo, e quindi “isolati” [...]: ciò che rendeva più facile colpirli, perché si poteva fare affidamento sul fatto che la loro uccisione non avrebbe scatenato una

reazione vibrante. E se nella decisione di eliminare i due magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento, scrivono ancora i giudici del Borsellino quater, attingendo ancora alle dichiarazioni del Giuffré, «La stessa strategia terroristica di Salvatore Rima traeva la sua forza dalla previsione (rivelatasi poi infondata anche a causa della paura insorta in buona parte del mondo politico e della conseguente reazione dello stato) che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla normalità. L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento. che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino. e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura».

D’altra parte, se tra gli obbiettivi perseguiti da Riina, per quanto potesse sembrare irrealistico realizzarlo, v’era anche la revisione delle condanne del maxi processo, e più in generale un ammorbidimento delle misure di contrasto alla mafia, sarebbe stato arduo che il Governo o singoli esponenti politici potessero caldeggiare proposte di modifiche del quadro normativo a favore di Cosa nostra fino a quando fossero rimasti in vita Falcone e Borsellino, con il loro carisma e la loro ferrea volontà di portare avanti senza cedimenti di alcun genere la lotta alla mafia. Motivo di più per legare l’uccisione di Borsellino in rapporto di consecuzione logico-temporale a quella di Falcone, nel senso che il successo della strage di Capaci non sarebbe stato pieno se e fino a quando alla morte di Falcone non avesse fatto seguito quella di Borsellino.

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