Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


E quindi, si obbietta, buon senso e prudenza avrebbero dovuto consigliare di lasciare calmare le acque, prima di mettere in atto un secondo clamoroso attentato che avrebbe reso inevitabile un ulteriore inasprimento della risposta repressiva, con un incremento esponenziale di possibili contraccolpi negativi per tutta l’organizzazione mafiosa.

L’obbiezione è, in astratto, ragionevole. Ma trascura di considerare che il successo dell’impresa di Capaci, oltre a galvanizzare il popolo mafioso di Cosa nostra ed eccitare il delirio di onnipotenza del suo capo incontrastato (e ve n’è traccia cospicua traccia in diverse conversazioni intercettate in carcere tra Riina e il codetenuto Lo Russo, e segnatamente nelle parole di trionfale compiacimento e smisurato orgoglio con cui a distanza di tanti anni commenta la “mattanza” di cui rivendica di essere il principale artefice) aveva provocato un tale sgomento e scoramento, complice anche la distrazione di una classe politica nazionale alle prese con altre problematiche e con emergenze che si affiancavano a quella criminale, che la risposta dello Stato non fu all’altezza di quella che ci si poteva attendere e che gli stessi corleonesi avevano messo in conto.

Essa si concretizzò in realtà nel varo di un pacchetto di misure, quelle contenute nel d.l. che già riprendeva alcune indicazioni del giudice Falcone, e che, una volta andate a regime, avrebbero sicuramente comportato un inasprimento della stretta repressiva nell’azione di contrasto al fenomeno mafioso.

Ma intanto quelle misure — come l’ampliamento delle ipotesi di fermo di polizia, o della possibilità di sottoporre a sequestro e confisca i beni dei mafiosi o di disporre intercettazioni telefoniche e ambientali, per non parlare dell’introduzione di nuove l’intestazione di beni fittizi e soprattutto il regime speciale del 41 bis, di cui ancora nessuno poteva prevedere e percepire quale sarebbe stato l’impatto - non avevano ancora trovato applicazione concreta e ci sarebbe voluto del tempo per metterle in atto e perché producessero i loro frutti; inoltre, la stessa conversione in legge del decreto predetto era legata all’esito tutt’altro che certo di un’aspra battaglia parlamentare, al punto che, fin dall’inizio, si metteva in conto che non si sarebbe fatto in tempo a completare l’iter in tempo utile per evitarne la decadenza.

Ma come è emerso dalle testimonianze di Scotti, Martelli e Gargani, il Governo era assolutamente determinato a ripresentare il decreto nell’ipotesi in cui non fosse stato convertito; e semmai il dilemma che, a dire di Scotti, si pose era tra il lasciarlo decadere per mancata riconversione, per poi ripresentarlo magari con piccoli ritocchi, per guadagnare tempo e consensi, oppure impegnarsi nella battaglia parlamentare con il rischio che venisse convertito con modifiche che ne stravolgessero

il contenuto (l’On. Gargani però oltre a sottolineare che in tutti i passaggi parlamentari il suo partito votò compatto per l’approvazione del disegno di legge di conversione, nega di avere mai prospettato al suo collega di partito Scotti una simile alternativa).

Ora, è vero che la strage di via D’Amelio, come comprovato dalla documentazione relativa ai lavori parlamentari dell'iter di conversione del d.l. 8 giugno 1992 n. 306- non mancò di incidere pesantemente sull’andamento dei lavori e sull’esito finale: ma non perché si fossero modificati gli orientamenti delle varie forze politiche lacerate da contrasti trasversali che avevano generato uno schieramento composito che si opponeva all’impianto complessivo e ai contenuti più innovativi del decreto (in quanto lesivo dei diritti di difesa, e per l’effetto di stravolgimento delle linee portanti del nuovo codice di procedura penale entrato in vigore da appena tre anni).

Sotto questo aspetto, i contrasti persistevano e chi si opponeva non cessò di farlo. Ma è certo che l’appello al senso di responsabilità delle forze politiche di fronte al divampare dell’emergenza criminale non cadde nel vuoto.

Gli emendamenti del Governo

Il Governo fece la sua parte, presentando il 21 luglio un maxi emendamento all’originario disegno di legge che, nell’intento di facilitare un accordo parlamentare, raccoglieva alcuni dei rilievi critici emersi nel corso del dibattito sulle più significative modifiche del quadro normativo; e ponendo la questione di fiducia per blindarne l’approvazione, dopo che neppure uno degli innumerevoli emendamenti presentati dalle opposizioni era stato ritirato (e il 24 luglio il Senato approvò con modifiche); e le conferenze dei capi gruppo dei due rami del parlamento sortirono una calendarizzazione dei lavori con cadenza serrata, rinunciando gli oppositori a qualsiasi manovra di ostruzionismo. E ciò nondimeno, il decreto fu convertito (con modifiche) in legge ad un giorno appena dalla scadenza.

È facile, con il senno di poi, rimarcare che se Riina e soci avessero avuto la pazienza di attendere tre settimane, invece di fare esplodere l’autobomba in quel pomeriggio del 19 luglio in via D’Amelio, il decreto Scotti-Martelli non sarebbe stato convertito in legge, restando impantanato nelle secche di un accesissimo scontro parlamentare.

Ma con quali risultati concreti?

Si è già visto che la mancata conversione in tempo utile fin dall’avvio dell’iter parlamentare era stata messa in conto dal Governo che tuttavia era determinato a ripresentarlo. E a meno di non ipotizzare spaccature su quel tema in seno alla maggioranza parlamentare che lo sosteneva, era altrettanto probabile che alla fine sarebbe stato approvato, sia pure al prezzo di qualche modifica. D’altra parte, era stata persino pRospettata l’opportunità di lasciare scadere il decreto per poterlo ripresentare nella sua interezza (cfr. ancora Scotti e anche Violante), per evitare mutilazioni o modifiche che ne stravolgessero l’impianto, approfittando di una prassi quella della reiterazione dei decreti legge, che all’epoca era assolutamente abituale.

D’altra parte, è arduo credere che Riina, in pieno delirio di onnipotenza dopo la clamorosa impresa di Capaci, e determinato a portare avanti un’offensiva senza precedenti contro lo Stato, legasse le proprie scelte strategiche alle incerte previsioni sugli esiti di una battaglia parlamentare dalla quale poteva sortire il varo di un’ulteriore stretta repressiva. Anche perché quando venne deciso di porre concretamente mano all’esecuzione della condanna a morte del dott. Borsellino, e si decise di farlo con modalità eclatanti, mancavano assai più di tre settimane alla scadenza del termine per la conversione in legge del decreto in questione.

Del resto, esisteva già un funesto precedente storico, di come i corleonesi non si facessero minimamente condizionare da dinamiche politico-parlamentari, almeno per ciò che concerneva l’iter di formazione delle leggi, comprese quelle che più direttamente investivano i suoi interessi. Il disegno di legge n. 1581 a firma di Pio La Torre e altri, concernente l’introduzione del reato di associazione mafiosa e nuove misure in materia di prevenzione e indagini patrimoniali a carico degli indiziati mafiosi, presentato nel marzo del 1980 alla Camera dei deputati, era rimasto impantanato per quasi due anni prima che, all’indomani dell’omicidio del Segretario Regionale del Pci, ne riprendesse l’iter parlamentare.

Ed era in discussione quando venne consumata la strage Dalla Chiesa, che ebbe l’effetto di imprimere una straordinaria accelerazione all’approvazione del disegno di legge predetto, nel testo integrato con quello a firma del Ministro Rognoni (e fu così che vide la luce la Legge Rognoni-La Torre la cui abrogazione o modifica in senso favorevole ai mafiosi costituiva nove anni dopo uno degli obbiettivi strategici di Riina).

L’estate del ‘92

Ma soprattutto, Cosa nostra nell’estate del ‘92 non giocava in difesa, ma in attacco, e l’obbiettivo prioritario non era quello di scongiurare il rischio di un ulteriore inasprimento della legislazione antimafia o dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Quello era un contraccolpo da mettersi in conto, come effetto immediato; ma l’obbiettivo finale era di costringere lo Stato, a forza di bombe, a prendere allo che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa nostra e quindi l’unica via era quella di fare concessioni o almeno trattare con i vertici mafiosi un allentamento delle misure repressive.

Perché ciò che i fautori della tesi dell’accelerazione dimenticano è che se Riina si era determinato a compiere un delitto eclatante come la strage di Capaci era anche perché la situazione si era già fatta tanto insostenibile, per gli interessi mafiosi, a causa delle modifiche normative già varate e andate a regime nel corso del trascorso biennio, da rendere più che sopportabile il rischio che ad una nuova strage potesse fare seguito una reazione vibrante dello stato sul piano dell’intensificazione dell’azione repressiva: nella convinzione, tuttavia che un governo e una classe politica tutt’altro che solidi, in un contesto segnato dalla crisi irreversibile cui erano avviati i partiti della debole maggioranza quadripartita che sorreggeva il primo, sotto i colpi dell’inchiesta “Mani pulite” (mentre lo stesso governo era alle prese con altre emergenze, oltre a quella criminale, come la vertenza sul costo del lavoro nel quadro di una crisi economica e finanziaria da fare tremare le vene ai polsi, e aggravata dalla necessità di rispettare i parametri contenimento del deficit imposti dal trattato di Maastricht, che era stato siglato pochi mesi prima, e di mettere al più presto mano a riforme di struttura come quelle di previdenza e sanità, oltre alla privatizzazione degli enti delle partecipazioni statali e degli altri grandi enti pubblici economici) non avrebbero retto a lungo di fronte alla minaccia di ulteriori spargimenti di sangue e alla conclamata incapacità di difendere l’ordine pubblico e l’incolumità dei cittadini.

Come scrivono i giudici del processo (di primo grado) Borsellino ter, «La prudenza avrebbe dunque dovuto consigliare a Cosa nostra di non porre in essere altri delitti eclatanti in quel periodo per non peggiorare la situazione, ma l’evidenza dei fatti oggettivi conferma le dichiarazioni dei predetti collaboranti, secondo cui il sentimento prevalente in Cosa nostra era quello per cui anche la situazione preesistente alla strage di Capaci era inaccettabile per l’organizzazione, che quindi, non doveva limitarsi ad evitare ulteriori inasprimenti ma doveva spingere la sua offensiva sino alle estreme conseguenze, non fermandosi sino a quando non avesse raggiunto il suo scopo, la garanzia cioè che sarebbero state modificate tutte quelle nonne che consentivano un più incisivo contrasto del fenomeno mafioso. anche se ciò avrebbe potuto comportare per un certo periodo “dei sacrifici”».

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