«La morte sarà una liberazione e per questo dolorosissima. Perché desiderata». Sono le parole di un uomo che su Instagram ha raccontato la sua esperienza di figlio, con madre malata di Alzheimer. È uno dei diversi commenti all’articolo in cui Selvaggia Lucarelli ha condiviso con i lettori di Domani la sua decisione di portare sua mamma, affetta di Alzheimer, in una Rsa.

Luigi Bellucci, si chiama così, è un figlio e, al tempo stesso, padre della sua «bambina di 106 anni», dal «cuore forte» e dalla «mente svanita». Anche lui si è trovato alle prese con una mamma anziana divorata dall’Alzheimer, davanti all’angosciosa scelta di doverla affidare ad una residenza sanitaria  assistenziale, nell’impossibilità di occuparsene.

In Italia, secondo l’Airalzh, Associazione Italiana Ricerca Alzheimer Onlus, su oltre 1,4 milioni di malati affetti da demenze, oltre 600mila sono colpiti da Alzheimer. Si prevede che nel mondo, a causa dell’invecchiamento della popolazione, nel corso dei prossimi 30 anni i casi triplicheranno ed entro il 2050 ne sarà affetta una persona su 85, coinvolgendo 130 milioni di individui a livello globale. Attualmente, invece, le persone colpite da demenze sarebbero circa 50 milioni, il 60-70 per cento di queste soffrirebbe di Alzheimer.

LA SCELTA – NON SCELTA

Un «male bastardo», come lo definisce Laura De Poli (betelgeuse2005), un’altra di questi figli dall’anima spezzata dalla scelta ingrata di portare un genitore in una Rsa, che però a ben vedere scelta non è, perché l’alternativa non esiste o non è praticabile.

Selvaggia Lucarelli, con il racconto del suo dramma personale, ha raggiunto le ferite più intime e nascoste di tante altre persone che hanno vissuto o vivono con il dolore di quella (non)scelta e che combattono ogni giorno il conflitto perenne tra i sensi di colpa dilanianti e ragionevolezza.

«È toccato anche a me e mia sorella ricoverare mia mamma in una Rsa – scrive Francesca (bfrancy1004) su Instagram, commentando il racconto della giornalista – Sensi di colpa a mille, poi abbiamo realizzato che per mia mamma avevamo scelto il meglio visto l'avanzare della sua demenza e il fatto che non potesse più deambulare autonomamente».

IL SENSO DI COLPA

Il senso di colpa è uno degli stati d’animo più frequenti tra i figli che vivono situazioni di questo tipo. Ne morde l’anima e li accusa di aver tradito quei genitori che hanno dato la vita per loro, proprio nel momento del bisogno. L’utente anto.ovi scrive: «Quando ho accompagnato mia madre malata di Alzheimer in casa di riposo mi sono sentita una traditrice. Con tutto quello che aveva fatto per me».

«Vivo questo tempo sospeso con amarezza e sensi di colpa»,  racconta Francesca (bravofrancesca1), che da poco tempo ha accompagnato la sua mamma disabile in una Residenza. «Forse – dice –  non mi perdonerò mai di non essere stata in grado di affrontare tutto questo dolore».

Il motivo che ritorna, in tutti i diversi commenti, sembra essere l’eterno richiamo all’eroico essere capaci, che si scontra con un presunto vile non esserlo. In situazioni come queste, «sperimenti tutta la forza e il coraggio di cui forse sei capace – racconta Luigi Bellucci (bellucci6124), il figlio-papà della “bambina” di 106 anni – con troppi sensi di colpa se non puoi o non ne sei capace». Cinzia Bellagarda (bellagarda) scrive che andava a trovare la sua mamma tutti i giorni, e che la vedeva sempre «molto serena ma io, quando uscivo da lì, piangevo tutte le mie lacrime: dolore, tristezza, senso di colpa, impotenza…tutte queste cose messe insieme. Ci sono voluti mesi per accettare tutto ciò».

LA COSA GIUSTA

In molti si fanno coraggio o lo fanno agli altri, affermando che quella scelta, di portare uno dei propri genitori malati in una Rsa, sia la cosa giusta. «L’ho lasciata che piangevo – ricorda Giorgia Boschetto (boschettogiorgia) –  e ogni volta che torno piango ancora. Ho pianto di rabbia, dispiacere, perché non capivo perché a lei. A volte penso che avrei potuto aspettare ancora un po’, poi però quando ripenso a tutto, ad ogni singolo step fatto, a lei che sorrideva a tutti in quei corridoi mi convinco che sia stata la cosa giusta. Sofferta, sempre e per sempre ma giusta».  

La “cosa giusta” non è mai giusta per tutti, ma dipende dalle persone. «Ogni nostra scelta, se fatta con il cuore, è quella giusta», dice Eleonora che, con la sua famiglia, ha ritenuto giusto tenere a casa la nonna malata.  «Mia nonna è andata via per sempre il 27 settembre 2021 dopo 12 anni di Alzheimer. Noi abbiamo fatto una scelta diversa. Abbiamo deciso di tenerla a casa fino al suo ultimo respiro. I primi anni è stata dura, ma c’erano momenti di lucidità, gli ultimi quattro anni è stata allettata e non parlava più, ma il solo tenerle la mano ti dava quella forza per andare avanti. Anche la nostra è stata una scelta difficile, perché ci siamo sempre chieste se portarla in un istituto non sarebbe stato meglio per le terapie, ma io credo che ognuno di noi debba fare ciò che si sente».

FARE PACE

Spesso scegliere qualcosa implica rinunciare a tutto il resto che con quella scelta non è compatibile. Il dramma dell’Alzheimer e delle patologie degenerative è che richiedono un convergere di forze, risorse e dedizione assoluta verso la persona malata, che vive nel suo «nulla». Elena Giori (cipupi) racconta che ogni volta che va a trovare il suo papà che le manca «in ogni istante» gli chiede: «chi sono?».  E ogni volta, scrive, «non so dove trovi in quel nulla il mio nome».

Qualcuno ha fatto pace con la sua scelta, come Chiara (chiaraby) che quando ha dovuto portare sua mamma in una Rsa racconta di aver pianto e di essere stata malissimo al timore che anche sua mamma stesse vivendo lo stesso dolore che provava lei. Ma oggi, dice, «sono contenta, mia mamma non guarirà mai, non migliorerà mai ed è ad uno stadio avanzato, ma quando la vedo adesso, vedo una persona serena, sorridente, curata e ben seguita. Puoi fare di tutto (noi facevamo puzzle, libri di matematica, colorare, migliori medici, centri diurni, educatori) ma poi l’Alzheimer arriva a volte ad un livello per il quale non solo non è possibile tenere una persona a casa anche se accudita, ma per il quale può essere peggiorativo, piuttosto che una Rsa». Chiara racconta che le persone badanti in grado di gestire un malato di Alzheimer sono pochissime, perché «non si tratta solo di mettere lì una persona che controlli, che faccia da mangiare, compagnia», ma servono stimoli diversi, e «non si tratta solo di “dimenticarsi cose e persone”, esistono allucinazioni, momenti di rabbia e forza inspiegabili, non volersi lavare, vestire, alzare». A volte «provano a mangiare cose non commestibili», e in generale «diventano irriconoscibili», trasformandosi. «Molti pensano che si è egoisti a metterli in un centro che possa curarli e farli stare bene, io oggi credo che si è egoisti a non farlo».

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