L’Amazon tall tower observatory (Atto) è un’altissima torre costellata di sensori che si erge per 325 metri e si protende sopra la più grande foresta pluviale della Terra: l’Amazzonia. Per raggiungerla, i ricercatori devono percorrere tragitti in auto di diverse ore da Manaus (la capitale dello stato brasiliano dell’Amazzonia), per poi imboccare una strada sterrata che li conduce a un’imbarcazione che permette loro di attraversare il fiume Uatumã. Sulla sponda opposta un’altra strada fangosa dà modo di immergersi nella giungla più profonda. È solo a questo punto che incontrano la torre, la struttura più alta del Sud America, una guglia arancione e bianca più alta della Torre Eiffel.

Perché così tanto interesse per l’Atto? Perché tra i vari scopi di studio dell’osservatorio vi è quello di esaminare la polvere che sotto forma di minuscoli minerali arriva dal deserto del Sahara, da più di 5mila chilometri di distanza. Ogni granello di polvere trasporta nutrienti chiave per l’Amazzonia, come fosforo e ferro e, se i venti sono nella giusta direzione, danno un contributo unico alla sopravvivenza del bacino amazzonico. Lo stesso materiale che conferisce al Sahara il suo tono beige opaco nelle immagini satellitari è il motivo per cui l’Amazzonia risulta così incredibilmente verde. Ma perché tutto ciò possa avvenire sono necessarie due condizioni: suoli estremamente asciutti in Africa e venti molto forti. 

Spiega Cassandra Gaston, chimica dell’atmosfera presso l’università di Miami: «La polvere è sempre stata un grande attore nel sistema climatico. Rientra nella categoria degli aerosol, piccole particelle sospese nell’aria, non più larghe di un capello umano. Ma nel loro insieme le nuvole di aerosol possono assumere una corposità da risultare visibili dallo spazio».

Nel 2006, la Nasa ha lanciato una missione specifica per studiare gli aerosol. Chiamato Calipso (Cloud-aerosol lidar and infrared pathfinder satellite observation), il satellite registra gli aerosol in tre dimensioni e mappa il loro movimento. Sebbene i siti di ricerca a terra come Atto possano studiare la chimica dell’aerosol con estrema precisione in un punto specifico, Calipso fornisce una comprensione globale dall’alto sul trasporto di aerosol.

«I satelliti possono fornire una visione continua e generale a scala planetaria», ha affermato Hongbin Yu, fisico ricercatore presso il Climate and radiation laboratory presso il Goddard space flight center della Nasa a Greenbelt, Maryland. «Con una prospettiva globale, è possibile capire da dove proviene la polvere del mondo e dove va a finire. E sembra proprio che l’Africa contribuisca con più della metà della polvere globale presente nell’atmosfera».

Ma nonostante i satelliti, i ricercatori non hanno ancora identificato con precisione quali siano le sorgenti delle polveri sahariane. «È molto difficile tenere traccia di queste particelle di polvere mentre vengono trasportate attraverso il deserto», ha osservato Gaston. «Conoscere la fonte tuttavia è importante, perché le concentrazioni di nutrienti possono cambiare anche di molto da un luogo all’altro, e se in futuro i cambiamenti climatici dovessero influenzare uno o l’altro dei luoghi di origine delle polveri le ricadute in Amazzonia potrebbero essere importanti».

Uno dei luoghi dove hanno origine le polveri è la depressione di Bodélé, un enorme ex letto di lago che si trova in Ciad. «Tale depressione è la principale fonte di emissioni di polvere a livello globale», ha spiegato Yan Yu, di Princeton University. L’area si trova tra due catene montuose, che generano forti venti da sud-ovest in grado di sollevare ingenti quantità di polveri. Va detto però che spesso il materiale viene abbattuto da forti temporali che incontra sul suo percorso. Una seconda probabile fonte è El Djouf, un deserto a cavallo del confine tra Mauritania e Mali. «Il sito è geograficamente più vicino all’Amazzonia, il che rende più probabile la sopravvivenza della polvere di El Djouf nell’atmosfera durante il viaggio», ha spiegato Yan Yu.

Le ricerche condotte con Atto tuttavia sostengono sia poco probabile che tutta la polvere che arriva in Amazzonia abbia origini africane. Questo perché una volta nell’aria le particelle di polvere iniziano lentamente a cadere sulla Terra e la maggior parte di essa finisce nell’oceano Atlantico, dove i suoi nutrienti di ferro alimentano la crescita del plancton. Solo le particelle di polvere che raggiungono altitudini molto elevate sull’Africa hanno il potenziale per arrivare in Amazzonia.

Nel 2015, la Nasa ha riferito che gli alisei (che sono solo una parte dei venti che trasferiscono materiale) si prendono in carico circa 165 milioni di tonnellate di polvere africana, ma solo 25,1 milioni di tonnellate finisce nel bacino amazzonico. Tuttavia, ogni particella che raggiunge il bacino fornisce una dose cruciale di nutrienti. La Nasa stima che circa 21.770 tonnellate di fosforo dall’Africa arrivino in Amazzonia ogni anno, stimolando la crescita in una regione in cui il 90 per cento dei suoli è impoverito di tale sostanza, un elemento chiave per il trasferimento di energia nelle piante.

Sembra che la seconda fonte di materiale che trasporta nutrienti in Amazzonia e va ad integrare il materiale trasportato sotto forma di polveri sia il fumo dei grandi incendi, anch’esso attraverso l’Atlantico. Ma a causa della loro relativa galleggiabilità, gli aerosol di fumo in genere viaggiano più lontano rispetto alle polveri e vanno verso il cuore dell’Amazzonia.

Esistono comunque differenze geochimiche importanti tra polvere e fumo. A parità di volume la polvere ha più massa e dunque contiene più nutrienti, ma non tutti i nutrienti sono utilizzabili allo stesso modo. Il fosforo nella polvere, ad esempio, è generalmente contenuto nell’apatite, che è un minerale e non si dissolve facilmente. «Quando la polvere raggiunge l’Amazzonia, si stima che solo il 5 per cento del fosforo sia immediatamente disponibile per essere assorbito dalle piante. Il resto richiede del tempo prima che possa essere utilizzato», ha spiegato Anne Barkley, dottoranda alla University of Miami. Il fosforo nel fumo, invece, è molto più facile da utilizzare da parte della vegetazione. «Anche se il fumo ha meno nutrienti, tende ad avere un impatto maggiore sulla vegetazione perché i nutrienti sono immediatamente accessibile alle piante», ha affermato Gaston.

Un aumento del fumo tuttavia, preoccupa i ricercatori. «Il fumo rende più difficile la combinazione di vapore acqueo e aerosol e la conseguente formazione di nuvole», ha affermato la ricercatrice Holanda. Ciò può ritardare le precipitazioni, un elemento fondamentale per la sopravvivenza della foresta pluviale amazzonica.

Le attuali incertezze sul trasporto di polvere e fumo in Amazzonia derivano dalla mancanza di dati su entrambe le sponde dell’oceano. Le prime osservazioni di Atto sono state nel 2010, per esempio. «Ma mancano misurazioni comparative provenienti dal deserto nordafricano», ha aggiunto Gaston. «Determinare le conseguenze delle polveri e dei fumi africani sull’Amazzonia è di grande importanza soprattutto nell’ottica dei veloci cambiamenti climatici in atto».

Alcune proiezioni dell’Ipcc (l’Intergovernmental panel on climate change), infatti, affermano che nei prossimi anni vi sarà un aumento delle piogge sul deserto del Sahara e contemporaneamente vi saranno aree dove si registrerà un aumento di siccità e conseguentemente di incendi. Se da un lato questi ultimi porteranno maggiori fumi, dall’altro aree più umide nel Sahara porteranno a una drastica diminuzione delle polveri in atmosfera.

Non è dunque assolutamente semplice comprendere come i cambiamenti climatici possano influenzare il trasporto di nutrienti dall’Africa all’Amazzonia, soprattutto se non si conosce bene la situazione attuale. Si comprende però come progetti simili ad Atto o Calipso siano fondamentali non solo per avere un quadro della situazione presente, ma anche per ottenere previsioni future. La polvere e i fumi collegano geologia, chimica e scienza dell’atmosfera. «È tutto interconnesso», ha detto Barkley, «e dunque è fondamentale comprendere quel che avviene su un continente per capire le possibili conseguenze su un altro distante migliaia di chilometri».

Materiale interstellare

Era il 2014 quando un oggetto proveniente da un altro sistema solare si è schiantato sul nostro pianeta. Lo ha confermato lo Ussc (United States space command) in una nota da poco rilasciata. La storia è iniziata quando il bolide si è “acceso” nella nostra atmosfera in una palla di fuoco sopra i cieli della Papua Nuova Guinea, a una velocità del tutto anomala rispetto alle normali meteoriti.

Amir Siraj, un ricercatore di astrofisica ad Harvard, dopo aver studiato tutti i dati a disposizione, è giunto all’ipotesi per cui l’oggetto sia arrivato da un altro sistema solare, e ha pubblicato la sua teoria in una ricerca del 2019. Sostenne anche che l’oggetto, entrando nell’atmosfera, si fosse spezzato in una serie di detriti che ora si trovano sul fondo dell’oceano Pacifico meridionale. Quanto rilasciato dall’Ussc, va ora a sostenere in pieno tale ipotesi che risulterebbe davvero rivoluzionaria.

Siraj ha affermato che lo studio giace in attesa di revisione da parte di una rivista scientifica da diversi anni, perché è stato ostacolato da strane circostanze sorte in seguito alla novità della scoperta e da una serie di impedimenti legati a informazioni classificate del governo degli Stati Uniti.

«Mi eccita tantissimo il solo pensare al fatto che sul nostro pianeta esiste materiale interstellare e sappiamo anche dove si trova», ha detto Siraj, oggi direttore degli Studi sugli oggetti interstellari del Progetto Galileo di Harvard. Siraj è giunto alla conclusione che quella palla di fuoco potrebbe essere arrivata dal di fuori del nostro sistema solare dopo aver consultato una ricerca in un corposo database del Center for near object della Nasa, dove sono registrati gli oggetti più importanti che hanno impattato con la Terra. In quel registro vi sono quasi 1000 casi, ma l’attenzione del ricercatore è caduta sulla palla di fuoco esplosa vicino all’isola di Manaus l’8 gennaio 2014, in quanto questa aveva una velocità insolitamente elevata per essere un oggetto del sistema solare, superando i 200mila chilometri orari. «Un oggetto del genere», continua Siraj «potrebbe solo essere arrivato dai confini estremi del nostro sistema solare o, più probabilmente, da un’altra stella».  Quando Siraj ha sottoposto la scoperta a  The astrophysical journal letters lo studio è stato messo in disparte in attesa dei dati del Cneos che solo ora sono stati declassificati.

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