Mentre si continua a lavorare da Ravenna a Faenza per svuotare acqua e fango dalle case, è importante capire come questa terribile alluvione possa segnare un punto di non ritorno nelle politiche di gestione del territorio. Ossia quali lezioni dobbiamo trarne, per capire come il governo dovrebbe impostare un cambiamento per prepararci meglio al prossimo evento e su quali scelte l’opposizione debba vigilare e farsi sentire per svolgere un ruolo utile.

Salvare le vite umane

Il nostro paese possiede uno dei migliori sistemi di Protezione civile al mondo, riconosciuto da tutti per la capacità di intervento, organizzazione, passione di chi ci lavora, con un esercito di volontari pronto a partire ad ogni chiamata. Come è avvenuto anche in questa occasione. Il problema è che non basta arrivare presto, tante persone in questo come in altri tragici eventi si potevano avvisare e forse mettere in salvo. Viviamo in un mondo iperconnesso, dove le compagnie di telecomunicazione dispongono dei dati di ogni persona e di ogni edificio e, come sappiamo bene, sono in grado di inviare messaggi in tempo reale con specifica attenzione alle caratteristiche e localizzazione del destinatario.

Questo patrimonio deve essere utilizzato per obiettivi di interesse generale e, se esistono problemi di privacy come di collaborazione tra queste compagnie, di disponibilità a condividere i dati, di gestione informatica di una mole importante di messaggi da inviare in contemporanea, si possono e devono superare. Come avvenuto durante il Covid, l’interesse pubblico e la tutela della salute possono consentire di abbattere queste barriere.

Perché l’obiettivo deve essere, laddove la Protezione civile riconosca il rischio potenziale di alluvioni e esondazioni, di individuare un perimetro di territorio dove inviare migliaia di messaggi che avvertano del pericolo e invitino a stare in casa o a trovare riparto se si vive in piani interrati. Non servono specialisti di eventi meteorologici estremi, è la cronaca a raccontare come molte delle vittime sono persone che vivono nei sottoscala degli edifici o chi si trova in auto ad attraversare sottopassi allagati.

Questa alluvione ricorda quella avvenuta in Germania nel 2022, perché coinvolge territori pianificati e governati – con anche errori che sono stati giustamente messi in evidenza – ma non di rischio idrogeologico prioritario. Per capirci, non siamo ad Ischia o Messina. Eppure, oggi nessuno si può sentire sicuro quando piove in poco tempo quella quantità di acqua. Per questo servono risposte nuove, di una dimensione senza precedenti anche rispetto ai sistemi di allerta se davvero vogliamo salvare la vita delle persone.

La buona idea di Renzi

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Ci sono tante ragioni per non provare simpatia per l’ex presidente del Consiglio da Rignano sull’Arno, per non condividerne idee e comportamenti. Ma in questo paese c’è stato solo un periodo in cui la messa in sicurezza del territorio è stata una priorità, con una struttura di missione a palazzo Chigi dotata di poteri reali e competenze per supportare gli enti locali.

Quell’organismo è durato dal 2014 al 2018, quando il governo Conte I decise di smantellarla e riportare i poteri ai ministeri. Da allora siamo tornati nella nebbia delle responsabilità, nel rimpallo tra strutture e nella logica dei fondi a pioggia e elenchi di interventi senza chiare priorità. L’ex ministro Costa, che mise la parola fine a quell’esperienza, sostiene che il problema sia nel codice degli appalti, mentre per il ministro Musumeci la soluzione sta nella istituzione di un gruppo di lavoro interministeriale.

In queste risposte c’è tutta la distanza della politica di fronte alla questione climatica, all’urgenza e complessità dei problemi che si hanno di fronte. Non basta infatti velocizzare gli appalti, serve una regia politica e tecnica che si assuma la responsabilità di individuare quali sono gli interventi più urgenti, che abbia il coraggio e il potere di sostituirsi in caso di inerzia, che sia di supporto per la progettazione, per le gare e i cantieri agli enti locali.

Serve, soprattutto, una struttura che come avviene per la Protezione civile disponga di figure tecniche adeguate, che studi e si organizzi per migliorare la conoscenza di fenomeni complessi per fornire le risposte più efficaci per prevenire e ridurne gli impatti nei confronti delle persone, di spazi pubblici e infrastrutture. Chiamatela in modo diverso, ma non prendete in giro gli italiani.

Risorse alle Autorità di bacino

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Come dopo tutti gli eventi catastrofici si litiga sulle nomine dei commissari, sulle risorse a disposizione, sui poteri speciali per accorciare i tempi della ricostruzione. Tutto già visto. Quello che manca è una discussione su chi invece si occuperà di rafforzare la resilienza dei territori nei confronti dei prossimi eventi, di selezionare le priorità di intervento e progettarle, portarle avanti.

L’errore che si continua a commettere è pensare che questo ruolo possano svolgerlo regioni e ministeri, e che sia solo un problema di procedure e poteri commissariali, che i progetti siano già nei cassetti e vadano solo tirati fuori e finanziati. Non è così, il fallimento di questo modello è sotto gli occhi di tutti e ci troviamo di fronte a un’accelerazione di frequenza e intensità, come conseguenza dei cambiamenti climatici già in atto, che cambia le priorità e impone di costruire in modo diverso il confronto tra il livello statale e che si occupa di pianificare gli interventi contro il dissesto idrogeologico.

L’aspetto incredibile è che dopo questi eventi non si parli mai delle sette Autorità di bacino distrettuale in cui il nostro paese è diviso. Per legge, queste sono responsabili della pianificazione e programmazione degli interventi «per le azioni di difesa del suolo e del sottosuolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico e la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi».

Questa impostazione risale agli anni Sessanta, e fu pensata proprio per superare la frammentazione delle responsabilità e avere una visione che superasse i confini regionali e comunali. Inutile ricordare che ha trovato sempre mille ostacoli, ma di fronte a problemi di questa dimensione è una questione che va tirata fuori.

L’opposizione su questo punto dovrebbe farsi sentire, perché la strada che il governo Meloni ha intrapreso dalla sua investitura è quella di una dialettica stato-regioni, con progressiva delega di risorse e poteri a queste ultime al di fuori di qualsiasi idea di coordinamento e di condivisione delle priorità. Il problema è che se si riduce ancora il ruolo delle Autorità di distretto e le risorse che hanno a disposizione (in legge di Bilancio il governo ha tagliato del 40 per cento le risorse proprio per quella del Po), le regioni andranno a scegliere di realizzare i soliti interventi a pioggia, con conseguenze che pagheremo tutti.

Quando invece queste sono le strutture da rafforzare perché conoscono i territori e in una dialettica con una struttura tecnica nazionale, oltre che con i comuni, sono in grado di individuare le priorità su cui il paese dovrebbe davvero puntare.

Meloni alla prova del clima

La percezione dell’opinione pubblica è cambiata nei confronti di questi fenomeni. Il negazionismo può andare bene nei talkshow e sui social, ma oggi tutti si aspettano risposte perché in tutti i sondaggi il clima è la principale preoccupazione in termini di sicurezza da parte degli italiani.

Per questo è importante che il confronto sulla ricostruzione in Emilia non sia solo sulla velocità dei cantieri, ma piuttosto sull’idea di come il paese si prepara ai futuri eventi che saranno purtroppo più frequenti e intensi.

Se il piano di adattamento sarà un libro da lasciare negli scaffali e tutto finirà in una partita di potere e nomine, se non si avrà il coraggio di cambiare le regole per cui in Italia è ancora possibile costruire in zone a rischio idrogeologico e a consumare suoli agricoli in ogni dove, si aprirà uno scenario politico complicato da gestire e che in troppi continuano a sottovalutare.

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