Lampedusa. Da parecchi anni questo nome ha smesso di indicare soltanto un punto sulle carte nautiche e geografiche. (...) Oggi dici Lampedusa e dici immigrazione, sbarchi, porta meridionale dell’Europa per migliaia di persone che, spesso, fuggono proprio dagli sconvolgimenti direttamente o indirettamente innescati dal cambiamento climatico, cui è connessa l’instabilità politica e la grave crisi sociale ed economica di vastissime aree africane e mediorientali.

È dunque non soltanto tecnicamente efficace ma altrettanto “simbolico” che proprio a Lampedusa, per la precisione a cinque chilometri dalla costa dell’isola, sia fissata una boa hi-tech che funziona da prezioso osservatorio di quei cambiamenti. Un osservatorio oceanografico, dotato di sistemi di sensoristica avanzata che consentono lo studio delle proprietà chimico-fisiche delle acque e la validazione dei rilevamenti satellitari, rendendo disponibili alla comunità scientifica dati meteorologici, di temperatura, radiazione, pressione, PH, ma anche relativi alla presenza di clorofilla e materia organica disciolta a varie profondità.

All’Enea dicono che «questa sentinella del clima ha confermato l’aumento della temperatura media del mare che negli ultimi cento anni ha subito un incremento di oltre 1,5° C, quindi molto di più della media globale, e una maggiore frequenza di fenomeni come le ondate di calore intense e durature, con temperature del mare che nel 2022 hanno raggiunto i 30° C e che mettono a rischio la biodiversità, modificano gli habitat di varie specie e influiscono principalmente su pesca, acquacultura, condizioni atmosferiche ed evaporazione».

A proposito di questi dati, la ricercatrice dell’Enea Tatiana Di Iorio aggiunge che essi «mostrano la necessità di intervenire rapidamente per implementare politiche di riduzione delle emissioni di CO2 ma anche degli altri gas a effetto serra di produzione antropica come il metano, in coerenza con gli obiettivi europei della neutralità climatica entro il 2050. Si tratta di una sfida essenziale per il futuro dell’Europa e del pianeta, e in particolare del Mediterraneo, una delle aree più sensibili ai cambiamenti climatici dove gli impatti sull’ambiente possono essere critici e che oggi più che mai è a rischio». (...)

Le coste

Se i monitoraggi su scala globale portano a conclusioni allarmanti, quando il campo si restringe e ci si concentra sulla regione mediterranea le proiezioni risultano impietose: sempre secondo l’Enea, entro il 2100 migliaia di chilometri quadrati di aree costiere italiane rischiano di essere letteralmente sommerse dal mare, in assenza di interventi di mitigazione e adattamento. Da qui alla fine del secolo l’innalzamento del mare lungo le nostre coste è stimato tra 0,94 e 1,035 metri (sulla base di un modello cautelativo) e tra 1,31 metri e 1,45 metri (su base meno prudenziale). A questi valori bisogna aggiungere il cosiddetto storm surge, ossia la coesistenza di bassa pressione, onde e vento, variabile da zona a zona, che in particolari condizioni determina un aumento del livello del mare rispetto al litorale di circa 1 metro.

Il fenomeno dell’innalzamento, potenziale o reale, riguarda praticamente tutte le regioni italiane bagnate dal mare per un totale di 40 aree costiere a rischio inondazione. Queste sono: la vasta area nord adriatica fra Trieste, Venezia e Ravenna; la foce del Pescara, del Sangro e del Tronto in Abruzzo; l’area di Lesina (Foggia) e di Taranto in Puglia; La Spezia in Liguria, tratti della Versilia, Cecina, Follonica, Piombino, Marina di Campo sull’Isola d’Elba e le aree di Grosseto e di Albinia in Toscana; la piana Pontina, di Fondi e la foce del Tevere nel Lazio; la piana del Volturno e del Sele in Campania; l’area di Cagliari, Oristano, Fertilia, Orosei, Colostrai (Muravera) e di Nodigheddu, Pilo, Platamona e Valledoria (Sassari), di Porto Pollo e di Lido del Sole (Olbia) in Sardegna; Metaponto in Basilicata; Granelli (Siracusa), Noto (Siracusa), Pantano Logarini (Ragusa) e le aree di Trapani e Marsala in Sicilia; Gioia Tauro (Reggio Calabria) e Santa Eufemia (Catanzaro) in Calabria.

Sommando la superficie delle 14 zone costiere già mappate nel dettaglio, si arriva a un’estensione totale a rischio inondazione di 5.686,4 chilometri quadrati, pari a una regione come la Liguria. Infine, per il 2100 l’innalzamento del livello del mare nei principali porti è stimato intorno a 1 metro. I picchi sono previsti a Venezia (+ 1,064 metri), Napoli (+ 1,040 metri), Cagliari (+1,033 metri), Palermo (+1,028 metri) e Brindisi (+1,028 metri).

Tutto questo è l’ennesima conferma e insieme conseguenza di un fatto incontrovertibile: nell’occhio del ciclone ci siamo proprio noi; noi italiani, noi abitanti delle coste del bacino del Mediterraneo e in particolar modo dell’Adriatico. Su queste nostre acque, infatti, sono destinati ad accanirsi prima e più direttamente che altrove gli effetti del riscaldamento globale.

Ciò determina due cose: da una parte l’estrema urgenza di una pianificazione di ampio respiro che riguardi non soltanto una prassi “virtuosa” di adattamento, ma anche e soprattutto una messa in sicurezza non più differibile di tanta parte del nostro territorio; in secondo luogo, la necessità di riconoscere al Mediterraneo il poco invidiabile ma pur prezioso status di primo laboratorio/osservatorio di ciò che sta avvenendo nel pianeta a livello climatico.

È il motivo per cui l’Osservatorio Climatico di Lampedusa è stato anche al centro delle attività del progetto ESPA che ha come obiettivo il miglioramento delle competenze delle pubbliche amministrazioni regionali e locali sui temi dell’energia e della sostenibilità. In poche parole, i dati raccolti a Lampedusa rappresentano in assoluto una delle più importanti fonti di informazione che contribuisce in modo determinante all’intera rete di osservazione globale per la comprensione del clima e dei suoi meccanismi.

Frane e alluvioni

Associated Press/LaPresse

I tecnici dell’Enea lo spiegano chiaramente: «Le ridotte dimensioni, l’assenza di rilievi, ma anche la sua posizione, lontana dai continenti e dagli effetti delle emissioni antropiche e della vegetazione», ecco cosa fa della regione del Mediterraneo un sito ottimale di monitoraggio, rappresentativo a scala globale, anche per la verifica delle osservazioni dallo spazio.

In uno studio condotto da Greenpeace, focalizzato sui costi per l’Italia del cambiamento climatico, si sottolinea come il nostro sia un territorio morfologicamente fragile e naturalmente predisposto a fenomeni franosi e alluvionali (il 75 per cento del suolo è montano-collinare). In aggiunta, specialmente a partire dal secondo dopoguerra, «abbiamo costruito dove non si sarebbe dovuto, portandoci a una media di consumo di suolo ben più alta di quella europea», ribadisce Daniele Spizzichino, ingegnere del Dipartimento per il servizio geologico dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra).

In questo quadro delicato si inseriscono gli effetti dei cambiamenti climatici con un aumento della frequenza degli eventi meteorologici estremi più difficili da prevedere, altamente pericolosi e potenzialmente distruttivi, quali piene improvvise o colate rapide di fango e detrito. Negli ultimi cinquanta anni, frane e inondazioni hanno causato 1.670 morti, 60 dispersi, 1.935 feriti e più di 320 mila evacuati e senzatetto.

Se frane e alluvioni sempre più intense stanno, per così dire, inondando il nostro Paese, ciò rende almeno più facile incrociare e integrare le diverse informazioni riguardanti il comparto marino, quello terrestre e quello atmosferico, fornendo anche un quadro complessivo sul ciclo del carbonio.

Dunque è sul nostro territorio che i cambiamenti climatici impattano e impatteranno con effetti decisamente amplificati. È difficile accettarlo ma, una volta assimilato questo dato, possiamo soltanto rimboccarci le maniche, approfondire e approntare le opportune soluzioni. Anche se la parola “soluzione”, come spiegato a più riprese in questo libro, non è la parola giusta.

Non c’è niente da risolvere e niente si risolverà. In pratica, non sarà possibile riportare neve e ghiacciai sulle Alpi, né raffreddare i mari, o ripristinare le condizioni del permafrost tal quali cento anni fa. Il margine d’azione si riduce drasticamente di anno in anno – in pratica, ci siamo ridotti a dover “salvare il salvabile” – e la sola speranza è che lo studio dei modelli e dei dati empirici di cui ormai disponiamo in abbondanza determini una vera, nuova consapevolezza presso le istituzioni, le aziende e la società civile. A giudicare dal poco che si sta facendo, sembrerebbe che a mancare sia proprio un’adeguata coscienza del problema. È difficile credere a questo punto che si tratti di mancanza di informazione. È più probabile che, al netto di tutto, si stia semplicemente scegliendo di barattare il futuro con un più comodo presente.

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