Buongiorno, lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, il venticinquesimo per la precisione, un buon modo per dire grazie a chi c’era dall’inizio, a chi è appena arrivato, a chi ha fatto girare la voce.

In piazza per il clima, di nuovo

Ieri c’è stato il Global Strike sul clima, 1.200 manifestazioni in tutto il mondo, decine in Italia, io ho partecipato a quella di Milano. Il format «Climate is getting hotter than...» ha decisamente preso piede. Ho intravisto o mi hanno raccontato di cartelli come questo – che è su Alessandro Barbero – su Timothée Chalamet, Alberto Angela, Zendaya. Altri?

Foto Ferdinando Cotugno

Avete mai preso parte a un corteo dei Fridays for Future? Qualunque sia la vostra età, il vostro grado di coinvolgimento, il livello attuale della vostra speranza, vi consiglio di andarci, prima o poi nella vita, perché partecipare a questo tipo di cortei fa bene alla salute. Se avete preso parte al Global Strike di ieri, sono curioso di conoscere le vostre impressioni, cosa avete notato, le differenze con le altre piazze della vostra vita (se ce sono state) o perché queste sono le prime. Sto lavorando a un progetto sulla speranza, e mi interessano spunti e visioni.

Sulle ragioni e il contesto di questo Global Strike per l’Italia, ne ho scritto qui, e questo invece è il prezioso contributo di Filippo Sotgiu, uno dei portavoce nazionali di Fridays for Future. Sotgiu, tra le tante questioni, ne solleva una importante: perché non c’è nessun rappresentante dei Fridays for Future italiani a Youth4Climate, l’incontro su clima e giovani della settimana prossima a Milano?

C’è un fatto, è un fatto politico e va riconosciuto: l’impatto delle manifestazioni del 2019 sulla conversazione globale intorno al clima (ne parla, più giù, anche il collettivo Destinazione Cop). Quelle di marzo 2019 (1 milione di persone) e settembre (7 milioni di persone) sono state un motore di cambiamento formidabile. Se si parla di clima come ne se ne parla oggi (da Draghi a Biden), lo dobbiamo all’energia accumulata in quei sei mesi. La scienza, l’Ipcc, Al Gore: avevamo tutto sul piatto. Ma quei cortei ci hanno preso la testa tra le mani e spinto a guardare in quella direzione. C’è ancora tanta strada da fare, il Global Strike di oggi ci ricorda che dire le cose giuste non è abbastanza.

La qualità dell’aria

Il 3 e 4 ottobre si vota alle elezioni amministrative. Domani su Domani uscirà un lungo articolo sulle questioni ambientali aperte nelle grandi città chiamate a scegliersi il sindaco o la sindaca e come si sono intrecciate con la campagna elettorale. Poco, in realtà. O comunque nemmeno lontanamente abbastanza.

C’è un tema al quale dovremmo pensare molto di più, dovrebbe essere in cima alla lista delle priorità di governo urbano, e che invece è stato evitato, schivato, aggirato: l’inquinamento dell’aria, un’emergenza sanitaria da 60mila morti premature ogni anno in Italia.

Per le coincidenze che a volte scuotono la politica come si fa con un pantalone alla ricerca di monete nelle tasche, proprio questa settimana l’Oms ha rivisto per la prima volta da sedici anni le soglie di sicurezza sulla qualità dell’aria. Le ha abbassate, in alcuni casi (come il biossido di azoto prodotto principalmente dai motori diesel) fino al 75 per cento. Vuol dire che i limiti che consideravamo sicuri e che già sforavamo erano comunque molto più tolleranti del necessario, per la nostra salute. Tutto il sistema delle soglie europee andrà aggiornato e questo getta uno sguardo inquietante su quello che stiamo respirando. Sapevamo di essere messi male, l’Oms ci ha detto che siamo messi molto peggio.

Ogni anno, sette milioni di persone muoiono prematuramente perché vivono in posti dove è pericoloso respirare: l’inquinamento non è un problema solo per il cuore e i polmoni, è implicato anche nell’insorgere di malattie neurodegenerative e diabete. L’80 per cento delle morti da PM 2.5 potrebbero essere evitate se le linee guida venissero aggiornate e soprattutto rispettate.

Non se ne parla perché non c’è un conteggio aggiornato giorno per giorno sui morti da inquinamento, non c’è nemmeno la distinzione di morti per smog o morti con smog ma insomma, stando alle medie nazionali, oggi sono morte in Italia per inquinamento circa 160 persone.

La qualità dell’aria / 2

Sapete quale potrebbe essere un buon modo per smettere di avere una comunicazione emergenziale sull’emergenza climatica? Continuare a parlare delle cose anche quando liberano il nostro campo visivo e il ciclo dell’ansia si sposta altrove.

Per esempio: gli incendi. Vi ricordate gli incendi? C’è stato un momento, tra la fine di luglio e l’inizio di agosto, nel quale sembrava che tutto l’emisfero boreale stesse andando a fuoco: il Nord America, la Spagna, la Grecia, Cipro, l’Italia, la Turchia, la Siberia.

Questa era la situazione nel Mediterraneo, per esempio, il 31 luglio.

Parte di quegli incendi bruciano ancora: negli Stati Uniti la stagione del fuoco è al suo picco e di solito si estende fino alla fine di ottobre, le foreste di sequoie di cui vi parlavo la settimana scorsa sono ancora in pericolo. Altrove il fuoco ha rallentato, per fortuna, ma quali sono state le conseguenze climatiche di quel picco?

Secondo il Copernicus Atmosphere Monitoring Service dell’Unione europea gli incendi di luglio globalmente hanno portato nell’atmosfera 1,3 gigatonnellate di CO2, era un record, poi è arrivato agosto, con le emissioni causate dagli incendi che hanno superato il mese precedente e hanno aggiunto 1,4 gigatonnellate di CO2. Il grosso è arrivato dai due focolai più imponenti: quello tra Stati Uniti e Canada e quello siberiano. È come se per quei due mesi si fosse materializzato, in termini di emissioni di gas climalteranti, un paese delle dimensioni dell’India.

È il ciclo degli eventi climatici più estremi: sono causati da condizioni create dall’aumento delle temperature (stress idrico, calore estremo), si scatenano causando danni ecologici e sociali enormi, e poi contribuiscono ad aumentare le condizioni climatiche che porteranno ad altri incendi, in un loop che si autoalimenta.

Cosa succede in Brasile

Barbara, una lettrice di Areale, chiedeva attenzione e informazioni su quello che sta succedendo alle tribù indigene in Brasile, che andavano (e vanno) incontro a una sentenza che – in un senso o nell’altro – sarà decisiva per il loro futuro.

Al momento la Corte Suprema ha rinviato a data da destinarsi la decisione sul cosiddetto «marco temporal», il limite temporale che pende come una tagliola sul diritto alla terra: chi l’ha persa (per espropriazione, spesso violenta) prima del 1988, data di ingresso in vigore della Costituzione, secondo questa interpretazione non avrebbe più nessun diritto.

Il caso è arrivato fino alla Corte Suprema sulla spinta dei Xokleng del sud dei Brasile, che furono cacciati un secolo fa dai loro tradizionali terreni di caccia, per fare spazio a immigrati dall’Europa, spesso dalla Germania, che oggi sono diventati agricoltori.

Al di là del caso specifico (le 830 famiglie di origine tedesca ormai vivono lì da generazioni), è evidente che l’interpretazione segnerebbe un precedente e a valanga determinerà l’esito degli oltre 200 contenziosi legali di questo tipo aperti in Brasile. Ovviamente, i settori più interessati allo spazio e alla terra (agribusiness, minerario, legname) tifano per questo limite, che protegge gli investimenti e ne permette di nuovi.

Una decisione della Corte Suprema a favore del limite temporale sarebbe una vittoria per il fronte “tori, pistole e bibbia”, costituito da settore agricolo, lobby delle armi e cristiano evangelici. D’altra parte, sarebbe un arretramento enorme dei diritti umani delle centinaia di tribù indigene, che vedrebbero erodersi ancora di più il proprio spazio legale e civile nella società brasiliana.

In occasione dell’attesa per la sentenza era arrivata al culmine la mobilitazione Luta Pela Vida, arrivata a Brasilia con cortei e veglie davanti alla Corte Suprema, coordinate dall’organizzazione dei popoli indigeni del Brasile, Apib.

Contesto: in Brasile oggi vivono circa 900mila nativi su una popolazione di 211 milioni di abitanti. Da un punto di vista ecologico, rappresentano un argine contro la distruzione e la degradazione della foresta amazzonica e degli altri delicatissimi ecosistemi del Brasile.

A proposito, il Pantanal, la zona umida che si trova tra Mato Grosso do Sul, Mato Grosso e Bolivia, e che è il più grande ecosistema di questo tipo al mondo, sta bruciando di nuovo, dopo aver perso il 30 per cento del suo bioma nella scorsa stagione degli incendi.

Altro pezzo di contesto: nel 2022 ci sono le elezioni presidenziali, un momento di passaggio decisivo per la fragile democrazia brasiliana.

Gite nella transizione energetica

C’è una frase che avrete sentito spesso, viene ripetuta come vengono ripetuti i luoghi comuni, ossessivamente, una frase che a ogni reiterazione prova a diventare più vera: «Eh, ma l’eolico è brutto». I gusti, ovviamente, sono gusti, l’occhio e le sue reazioni sono fatti privati, però è anche vero che questa idea dell’eolico come deturpazione del paesaggio è una delle più strumentalizzate dagli inattivisti italiani contro la transizione ecologica. È basata su un’idea cristallizzata del paesaggio, che invece è un fatto umano e come tale si trova nel tempo, cambia e con esso cambia anche la nostra percezione.

Questo preambolo serve a presentare un progetto molto attuale e interessante di Legambiente, Parchi del vento, la prima guida ai parchi eolici italiani. Sono undici, si trovano in sei regioni italiane, ognuno è accompagnato da mappe interattive con informazioni sulle caratteristiche degli impianti, sulle bellezze dei territori e sui percorsi che li attraversano.

La guida contiene dei veri e propri itinerari per la vostra gita nella transizione ecologica: consigli su dove dormire, cosa mangiare e su quali borghi e luoghi storici e artistici visitare. Vedere da vicino può essere sempre istruttivo e illuminante. Trovate la guida qui: https://parchidelvento.it/.

Il canone letterario di Areale

Avevo iniziato a raccogliere ormai un mese fa – sull’ispirazione della nuova collana Penguin – le vostre letture ecologiste del cuore, i libri che vi hanno aperto lo sguardo, la mente, in molti casi anche il cuore al rapporto con la Terra, l’ambiente, il futuro. Ne stanno arrivando tantissimi, una cosa che fa bene alla salute, grazie. Presto li sistematizzerò in qualche modo, per avere un elenco unico per me e per voi, ma lo farò solo alla fine, intanto i suggerimenti continuano ad arrivare e, ripeto, ne sono davvero molto felice: se ne avete, se avete voglia, ne aspetto altri, la mail per comunicare con me è come sempre in fondo alla newsletter.

Intanto, ecco le nuove eco-letture di Areale. Eleonora propone L’anello di Re Salomone di Konrad Lorenz (Adelphi). Le fu consigliato alle medie da una professoressa di italiano: «Dopo averlo letto decisi che da grande sarei diventata un’etologa! Questo libro mi regalò un nuovo sguardo con cui guardare gli animali, uno sguardo meno antropocentrico. Ci ripensai quando all’università, alla prima lezione di zoologia, il Prof ci disse che era importante rispettare in egual misura tutti gli animali: dal più piccolo e “insignificante” al più grande e maestoso».

Il secondo, per Eleonora, è La natura in pericolo di Richard Leakey (Dalai). «Lo trovai nella biblioteca del mio paese quando andavo al liceo e scatenò in me un fortissimo interesse per la tutela dell’ambiente, la conservazione della biodiversità e... l’Africa ovviamente (quindi a quel punto volevo fare l’etologa in Africa!)».

Barbara invece aggiunge quelli che sono già due classici di Areale, come Il sussurro del mondo di Richard Powers (La Nave di Teseo) e Il tempo e l’acqua di Andri Snær Magnason (Iperborea), e poi Come pensano le foreste di Eduardo Kohn (Nottetempo), «perché ci toglie dal “centro del mondo”, a noi occidentali ma anche a noi umani in generale» e L’ordine nascosto di Merlin Sheldrake (Marsilio), magnifico saggio sui funghi che per Barbara fa «un ulteriore passo nel toglierci dal centro, o dalla cima, del mondo, fino a rivedere il concetto stesso di individuo».

Infine, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile di Amitav Ghosh (Neri Pozza), un classico tra i classici.

Una quercia, da molto vicino

Infine, vi saluto con una foto. Questa è una foglia di quercia al microscopio. Buffa, vero?

È la foto di Jason Kirk che ha vinto la Small World Photomicrography Competition organizzata come ogni anno da Nikon, e vedere la bellezza da così vicino ha sempre un valore, che condivido con voi.

Le altre foto (ce ne sono tante di magnifiche) sono qui.

Anche per questa settimana è tutto, come sempre, vi ringrazio per aver camminato e letto con me fino a questo punto. Se avete domande (come ha fatto Barbara sulla situazione in Brasile, Areale su commissione), spunti, critiche, idee e ovviamente anche contributi per il nostro canone letterario, scrivetemi a ferdinando.cotugno@gmail.com

Per comunicare in modo istituzionale con Domani, la mail è: lettori@editorialedomani.it

A presto!

Ferdinando Cotugno

© Riproduzione riservata