L’Australia è lontana e raramente i suoi avvicendamenti politici entrano nei radar europei. Le ultime elezioni sono un’eccezione, perché il 21 maggio è successo qualcosa di importante. L’Australia è la prima democrazia occidentale nella quale l’esito del voto si è giocato sui cambiamenti climatici, che sono stati un tema chiave per decidere il destino di leader e partiti, insieme a sanità e costo della vita.

Risultato: dopo quasi un decennio, i conservatori lasciano il potere e il laburista Anthony Albanese ha giurato come primo ministro. È stata la concretezza degli eventi a indirizzare la realtà politica. L’Australia è una trincea della crisi climatica, con gli incendi del 2019-2020 che hanno bruciato 24 milioni di ettari di vegetazione (poco meno dell’intera Italia) e ucciso 500 persone e un miliardo di animali. Ma anche con le alluvioni sulla costa orientale e gli episodi di sbiancamento lungo la Grande barriera corallina, che potrebbe perdere il 90 per cento della vita nei suoi ecosistemi entro la fine del secolo.

Non è fantascienza

Questa sequenza di shock ha spinto gli elettori a mettere la credibilità climatica in cima alle priorità su cui valutare i candidati. È come se in Italia alle prossime elezioni giudicassimo Salvini, Meloni, Letta o Conte anche per il loro approccio alla siccità, alle ondate di calore, agli eventi estremi. Sembra fantascienza, ma in Australia lo scenario è cambiato in poco tempo.

Secondo un sondaggio del Lowy Institute per il 60 per cento degli elettori australiani il riscaldamento globale è un problema serio e pressante e per il 55 per cento la base della politica energetica deve essere la riduzione delle emissioni, percentuale cresciuta dell’8 per cento in due anni.

Sono i numeri di uno smottamento culturale con conseguenze politiche. A uscirne malissimo è stato l’ex premier, Scott Morrison: di lui rimarrà la foto del pezzo di carbone che portò in parlamento. Il messaggio era: non abbiatene paura, questo è ancora il nostro futuro. L’Australia è cavallo tra economia del passato e del futuro: è il primo produttore di carbone ma ha anche immense riserve di litio, il materiale base dell’energia pulita. Con i suoi spazi e la sua esposizione al sole ha il potenziale per essere una «superpotenza delle rinnovabili», come ha detto Albanese.

Sabotaggi continui

Il governo Morrison è stato un continuo sabotaggio degli sforzi internazionali per la transizione, l’Australia è tra i paesi che hanno indebolito i risultati della conferenza Onu sul clima di Glasgow a novembre, nella poco invidiabile compagnia di Cina, India, Brasile, Russia e Arabia Saudita.

Gli elettori hanno deciso di non avere più un primo ministro che fa del loro paese uno stato canaglia del clima. Il nuovo premier non è un radicale, è prudente sulle miniere di carbone e sui giacimenti di gas, ma ha intenzione di rafforzare gli impegni di decarbonizzazione, con un taglio delle emissioni del 43 per cento entro la fine del decennio, e vuole anche portare una delle prossime conferenze sul clima in Australia.

Lo smottamento politico è stato trasversale agli orientamenti e indirizzerà la politica del nuovo governo. Il grosso dell’innovazione politica è arrivato dal basso e fuori dal sistema tradizionale. Sul clima sono caduti territori conservatori come il Queensland, dove sono andati bene i Verdi, grazie a un lungo lavoro di costruzione di comunità, e i quartieri ricchi di Sydney e Melbourne, dove si è affermata un’onda di candidate indipendenti color teal, verde acqua, sostenute dal fondo Climate 200, che ha raccolto risorse da migliaia di donatori a favore di candidati con un approccio scientifico al clima. Il nuovo premier dovrà lavorare insieme a loro e alle loro idee: governare ignorando il clima diventerà sempre più difficile.

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