«Sto guardando una nave che trasporta carbone mentre viene caricata al molo», dice Zack Schofield mentre il sole tramonta alle spalle del colosso di ferro. Per cinque giorni è stato tra i partecipanti al blocco del porto di export di carbone più grande del mondo, a Newcastle, Australia.

La protesta Rising Tide (letteralmente “marea crescente”) per il terzo anno consecutivo ha organizzato un vero festival dell’attivismo climatico con oltre 8mila partecipanti e che ha toccato il suo punto più alto nei giorni di sabato e domenica, quando migliaia di persone si sono gettate in acqua per interrompere l’arrivo delle navi da carbone.

«Vogliamo che il governo australiano interrompa nuovi accordi sul gas e il carbone e che tassi al 78 per cento gli attuali export per la transizione verso nuove industrie sostenibili», spiega Zack.

Tutti in acqua: il blocco del porto

Gli attivisti si sono prima radunati in migliaia alla foce del porto di Newcastle, per poi nuotare con dei kayak in corrispondenza della rotta delle navi che, da e verso tutto il mondo, commerciano carbone. Alcuni sono saliti quasi a prua per innalzare lo striscione «phase out coal and gas», mentre altri scrivevano con della vernice sul fianco di uno dei giganti di ferro «Timeline now!».

«Fare questo tipo di azioni ti fa sentire finalmente potente», condivide. «Anche mio papà, uno psichiatra, si è unito. È stato arrestato già due volte».

Credit photo: Rising Tide

L’azione ha portato i gestori del porto a ridurre le navi in entrata e uscita, che di solito si aggirano intorno alla dozzina. Con migliaia di persone in acqua, disposte a tutto, sono state ridotte a cinque nel corso di tutto il fine settimana.

Di quelle cinque navi rimaste in circolazione, almeno tre sono state bloccate, dicono gli attivisti. Un successo. Quando tutto sembrava finito, lunedì mattina altre 16 persone hanno fatto irruzione nel porto e si sono attaccate a due caricatori di carbone e a due nastri trasportatori.

L'Autorità Portuale del Nsw ha dichiarato che domenica quattro navi hanno subito interruzioni. «Quattro movimenti navali non hanno potuto essere completati secondo il programma odierno, tra cui due navi da carico non destinate al trasporto di carbone», ha affermato un portavoce.

«È un modo davvero efficace per riprendere il controllo della situazione e inviare un messaggio che non può essere ignorato» spiega Zack. Ma qual è il messaggio degli attivisti di Rising Tide?

Il contesto

L’Australia, oltre l’immaginario comune di canguri e tavole da surf, è sostanzialmente uno stato petrolifero. Gli attivisti lo definiscono così, in quanto seppur la sua produzione interna non sia comparabile a quella di altri paesi come gli Stati Uniti o l’Arabia Saudita, è un tassello fondamentale per la geopolitica dell’energia: il paese è il terzo esportatore al mondo di combustibili fossili, con il 7 per cento di tutto l’export del settore.

I principali paesi di esportazione dall’Australia sono la Cina, Taiwan, Giappone e Corea, luoghi dove l’energia rinnovabile sta prendendo sempre più piede. «La transizione che proponiamo considera anche che tra 5-10 anni, il mercato del carbone e gas calerà. Altri tipi di fonti sono necessarie», spiega Zack.

Rising Tide chiede infatti una tassazione del 78 per cento per l'industria fossile. Questo porterebbe nelle casse dello stato introiti utili alla transizione - soprattutto per i lavoratori impiegati ora nelle industrie - verso altri settori più sostenibili.

«Questa cifra non è un numero casuale, ma un dato di realtà su un’esperienza che ha già funzionato», dice Zack. Stiamo parlando della Norvegia. Oslo infatti applica un regime di tassazione complessivo sugli utili delle imprese petrolifere, con un’aliquota che arriva al 78 per cento. Questo ha portato a dei risultati importanti: il fondo nazionale d'investimenti pubblici norvegese ammonta a 2.000 miliardi di dollari australiani.

Gli effetti della protesta di Rising Tide

Le azioni più dirompenti si sono svolte nel fine settimana, mentre gli altri giorni, prima e dopo il festival, hanno visto dibattiti, training per gli attivisti, campeggio e «semplicemente stare insieme come una comunità», afferma Zack. Il ragazzo partecipa dalla “prima edizione” del “profestival” di Rising Tide, ma quest’anno i risultati dell’azione diretta nonviolenta sono stati notevoli.

Dopo il blocco delle navi, il governo australiano ha risposto istituendo una zona di restrizione marittima intorno al porto, rendendo illegale oltrepassare una serie di boe, in modo da poter arrestare chiunque avesse cercato di ostacolare le navi. «Ovviamente siamo andati oltre le boe», dice fiero Zack.

A seguito di ciò, molte persone sono state arrestate, trattenute e poi rilasciate. È difficile quantificare quanti ricadono in questa casistica e servirà che si calmino le acque per comprendere le diverse esperienze degli oltre 8mila presenti.

Credit photo: Rising Tide

Per quanto riguarda le persone arrestate con denunce, la cifra finale è 155, informano gli organizzatori. Sono stati accusati di vari reati ai sensi del Crimes Act (Legge sui crimini) e del Marine Safety Act (Legge sulla sicurezza marittima). Mentre i minorenni sono stati trattati ai sensi della legge sui giovani delinquenti (Young Offenders Act).

Lo scorso anno, durante il blocco, sono stati arrestati 173 manifestanti, 133 dei quali sono stati incriminati. Quattro sono stati dichiarati non colpevoli all'inizio di quest'anno, mentre i procedimenti giudiziari per i restanti 129 sono ancora in corso.

«Molta forza è venuta dai locali di Newcastle» racconta Zack. Gran parte della popolazione della città è impiegata proprio nell’industria fossile, che si è inserita e stabilizzata nel tessuto economico australiano. «Anche loro concordano nella necessità di fare una transizione verde».

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