In vista della Cop30 di Belém, un’analisi indipendente firmata da Foodrise, Friends of the Earth U.S., Greenpeace Nordic e Institute for Agriculture and Trade Policy mette al centro il grande rimosso della crisi climatica: la zootecnia industriale. Tra il 2022 e il 2023 le 45 principali multinazionali della carne e del latte hanno prodotto oltre 1,02 miliardi di tonnellate di gas serra, più dell’intera Arabia Saudita. Oltre la metà è metano, il gas più potente nel breve periodo, decisivo per restare vicini a 1,5 °C. Se queste aziende fossero uno Stato, sarebbero il nono emettitore mondiale.

In testa c’è la brasiliana JBS, che da sola vale quasi un quarto del totale. Seguono Marfrig, Tyson, Minerva e Cargill: insieme 480 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente, più di Chevron, Shell o BP. L’Italia è presente con Cremonini–Inalca, ventesima con 14,41 milioni di tonnellate nel 2023, pari a un terzo di tutte le emissioni zootecniche nazionali stimate dalla Fao.

Il rapporto descrive un copione simile a quello dei colossi fossili: promesse di “neutralità climatica” e investimenti marginali in tecnologie che non riducono il problema alla radice. Le grandi imprese della carne e del latte continuano ad aumentare la produzione mentre dichiarano impegni al “net zero”, spesso senza piani credibili.

Il metano è il vero nodo. La sua capacità di trattenere calore è oltre ottanta volte superiore a quella della CO₂ nei primi vent’anni dopo l’emissione. Per questo l’Onu chiede un taglio del 45% entro il 2030. Ma i giganti dell’agroindustria preferiscono metriche che diluiscono il peso del metano su cento anni, riducendone l’urgenza apparente.

Secondo il rapporto, i bovini sono responsabili di circa l’80% delle emissioni del campione; i suini dell’11% e il pollame del 9%. Una bistecca di manzo può avere un impatto climatico fino a cento volte superiore a quello di una porzione di legumi.

Le aziende reagiscono finanziando lobby internazionali per frenare norme su allevamenti e metano, promuovendo “false soluzioni” come additivi per i mangimi o biogas. Questi strumenti possono ridurre le emissioni per chilo di carne, ma non quelle complessive se la produzione continua a crescere.

Le proposte dei ricercatori

Gli autori indicano una rotta chiara. Primo: obblighi di trasparenza sui dati produttivi e sulle emissioni lungo l’intera filiera. Oggi gran parte delle multinazionali non pubblica volumi, metodi di calcolo né dati disaggregati per specie o Paese. Senza queste informazioni non si può verificare nulla.

Secondo: obiettivi vincolanti di riduzione, separando il metano dagli altri gas serra. Terzo: politiche pubbliche che riducano sovrapproduzione e iperconsumo di carne e latticini, spostando i sussidi verso l’agroecologia e la diversificazione proteica.

Nei Paesi ricchi una dieta a prevalenza vegetale ridurrebbe le emissioni alimentari del 61% e libererebbe superfici pari all’Unione europea, che restituite alla natura assorbirebbero fino a 14 anni di emissioni agricole mondiali.

Il rapporto propone anche di aggiornare le linee guida nutrizionali e gli appalti pubblici (mense scolastiche e ospedaliere) per favorire alimenti vegetali locali, insieme a una etichettatura climatica chiara e verificabile.

Il cambiamento necessario

L’Italia ha aderito al Global Methane Pledge, l’accordo internazionale che impegna a ridurre le emissioni di metano del 30% entro il 2030, e ha inserito il tema nel Pniec, il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima. Ma nei documenti ufficiali non si trovano misure specifiche per il settore agricolo.

Il governo punta soprattutto sul biometano finanziato dal Pnrr — nuovi impianti, trattori alimentati a biometano, recupero dei reflui — che però non incide sulla quantità di capi allevati. E ha preferito battaglie simboliche, come il divieto sulla carne coltivata, invece di elaborare una strategia concreta su diete e metano agricolo.

Eppure gli strumenti esistono: i Programmi di sviluppo rurale e il Piano strategico nazionale della Politica agricola comune possono premiare chi riduce fertilizzanti chimici, limita la soia importata e migliora la gestione dei reflui. Per accelerare davvero servirebbero tre mosse semplici già adottate altrove: rendicontazione obbligatoria e annuale delle emissioni aziendali con verifiche indipendenti; quote minime di pasti a basso impatto nelle mense pubbliche su base nazionale; riallineamento dei sussidi a obiettivi misurabili di riduzione del metano, legando gli incentivi non all’energia prodotta dai reflui ma alla diminuzione dei capi e alle pratiche agroecologiche adottate.

Il messaggio del rapporto è netto: senza inserire la produzione alimentare nei piani clima, la traiettoria globale salta. La riduzione del metano è la leva di emergenza per rallentare l’aumento della temperatura, ma va accompagnata da un cambiamento di dieta nei Paesi che consumano più carne, l’83% del totale mondiale.

Con la Cop30 alle porte, l’Europa e l’Italia non possono più trattare il cibo industriale come un capitolo secondario. O si misura, si vincola e si riduce, oppure continueremo ad arrostire il pianeta.

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