Se tutti i progetti di estrazione di combustibili fossili fossero prosciugati fino all’ultima goccia, bruceremmo per undici volte la possibilità di arginare il riscaldamento globale nei limiti concordati dai governi mondiali. È quanto emerge dal nuovo report di Carbon Bombs, una coalizione di organizzazioni non profit che ha mappato i piani delle industrie energetiche globali.

Nonostante nel 2021 l’Agenzia internazionale dall’energia (Iea) avesse sottolineato che ogni nuovo investimento in fonti fossili fosse incompatibile con l’obiettivo di neutralizzare le emissioni di gas responsabili del riscaldamento globale, lo studio sostiene che da allora le compagnie hanno pianificato circa 2.300 nuovi progetti estrattivi. 176 di questi sono “bombe carboniche”, ovvero con la capacità di emettere più di un miliardo di tonnellate di anidride carbonica, o CO2. Sommandole a quelle già esistenti, le “bombe” in tutto il mondo sono 601.

Fra queste c’è il giacimento di petrolio e gas di Kashagan al largo delle coste del Kazakistan, dove la società italiana Eni ha iniziato le operazioni insieme ai suoi partner nel 2013. La compagnia lo definisce come «una delle maggiori scoperte nel settore energetico degli ultimi decenni» la cui produzione ha raggiunto 80mila barili di petrolio equivalente al giorno. Ma per Carbon Bombs è un ordigno da quasi 4,5 miliardi di tonnellate di CO2.

Trenta nuove “bombe”

«I combustibili fossili devono essere progressivamente eliminati, e le bombe carboniche sono la cartina al tornasole della determinazione della comunità internazionale di andare oltre il fossile» dice a Domani Kjell Kühne, fondatore del think tank Leave it in the Ground Initiative (Lingo). Peccato che – secondo lui – quasi trenta di queste bombe hanno iniziato ad operare fra il 2021 e il 2025, mentre solo dodici progetti sono stati cancellati.

Lingo è fra le organizzazioni non-profit dietro a Carbon Bombs, insieme a Data for Good, Eclaircies e Reclaim Finance. È stato proprio Kühne a formalizzare l’idea della bomba carbonica, in una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Energy Policy nel 2022.

Eni ha fatto sapere a Domani che rifiuta «fermamente la nozione di "bomba carbonica" in quanto basata su una definizione arbitraria che ignora tutte le numerose risposte tecnologiche, normative e di mercato che possono mitigare le emissioni».

Nel loro studio, i ricercatori hanno stimato che le emissioni provocate dallo sfruttamento totale dei i progetti fossili in corso o pianificati equivalgano a 11 volte il nostro “carbon budget”, ovvero la quantità di CO2 che gli esseri umani possono emettere per mantenere l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi centigradi rispetto al livello preindustriale. È questo il limite entro cui – secondo gli esperti – potremo evitare cambiamenti irreversibili, come la perdita di certi ecosistemi. Un obiettivo che i governi avevano deciso di provare a raggiungere con l’accordo di Parigi nel 2015, anche se il loro impegno formale è di non sforare i 2°C. Il buon proposito è però già stato infranto una prima volta nel 2024, anno in cui la temperatura media ha superato la soglia degli 1,5°C.

La posizione di Eni

All’interno della mappatura – disponibile per chiunque al sito CarbonBombs.org – i ricercatori hanno incluso sia i progetti di estrazione di gas, petrolio e carbone pianificati fino al 2050, sia le infrastrutture per il traporto del Gas Naturale Liquefatto (Gnl). Guardando al numero totale di emissioni possibili, a primeggiare sono la saudita Aramco con 85 miliardi di tonnellate e il gruppo cinese CHN Energy Investment, con 79 miliardi. Le cinque compagnie con il maggior numero di progetti attivi sono invece TotalEnergies, China National Offshore Oil Corporation (Cnooc), Bp, Shell e, per l’appunto, Eni.

Secondo le stime, la partecipazione di Eni a progetti fossili potrebbe essere responsabile dell’emissione di 4,5 miliardi di tonnellate. Di queste, circa la metà proviene da progetti approvati dopo il 2021 e che dovrebbero entrare in funzione entro il 2050. È il caso dei progetti di estrazione di Gnl nel giacimento Coral e nel bacino di Rovuma, entrambi al largo delle coste del Mozambico. Lo sviluppo di Rovuma è in corso dal 2019. Secondo l’azienda, una volta completata l’implementazione e costruiti gli impianti di rigassificazione sulla terra ferma, il progetto sarà in grado di produrre 18 milioni di tonnellate di Gnl all’anno, garantendo anche la sicurezza energetica delle comunità locali. Coral North invece è partito due anni fa. Insieme, per Carbon Bombs rischiano di aggiungere oltre un miliardo di tonnellate di CO2 all’atmosfera.

A Domani, Eni ha fatto sapere che i suoi progetti sono «condotti secondo le migliori pratiche per il controllo delle emissioni e l'azienda sta riducendo concretamente le emissioni in linea con una strategia di decarbonizzazione volta a raggiungere progressivamente la neutralità carbonica entro il 2050». Ha però voluto anche precisare che, «poiché i dati, i dettagli, le definizioni e la metodologia dello studio specifico non sono stati condivisi» non le è possibile commentare ulteriormente.

© Riproduzione riservata