Dalla trentesima Cop sui cambiamenti climatici che si sta svolgendo in questi giorni a Belém, fra la foresta Amazonica e l’oceano Atlantico, ci si aspetta pochissimo. I maggiori emettitori di Co2 non hanno mandato delegazioni importanti, i media ne hanno parlato meno del solito. Eppure a svegliare dal torpore sono arrivati uno dopo l’altro tifoni e uragani spaventosi.

Melissa è arrivato una decina di giorni fa, in Giamaica ha distrutto 300 chiese e ucciso 45 persone, 43 ne sono morte ad Haiti, a Cuba sono state danneggiate oltre 45.000 case. Poi tre giorni fa un tornado ha devastato la cittadina di Rio Bonito do Iguaçu, nel Paranà, con sette morti e una ventina di feriti e il 90% delle case in parte o del tutto distrutte.

E intanto nel Pacifico le Filippine venivano colpite da due tifoni, uno dopo l’altro. Prima è arrivato il Typhoon Kalmaegi, che ha toccato terra il 4 novembre e ha colpito la parte centrale dell’arcipelago, provocando almeno 224 vittime e 135 dispersi. Piogge torrenziali, venti fino a 150 km/h, onde altissime.

E senza lasciare tregua, il 9 novembre è stata la volta del Typhoon Fung‑Wong, abbattendosi su gran parte dell’arcipelago e infierendo su terreni già dissestati. È stato dichiarato lo stato di calamità naturale e sarà valido per un anno intero: è il tempo minimo che ci vuole per riprendersi minimamente da colpi così forti.

In questi giorni un milione e quattrocento mila persone – scriverlo e leggerlo in lettere forse dà l’idea più di quanto la dia un numero – sono state evacuate. Come dire tutta Milano. Lunedì tre milioni sono rimasti senza elettricità, più di tutta Roma, e sono stati aperti circa 6.000 centri di evacuazione per ospitare temporaneamente 92.000 famiglie. Per ora sono accertati otto morti, secondo il Guardian, di cui sei uccisi da frane.

Quest’anno Fung‑Wong è il ventunesimo tifone a colpire le Filippine, con danni per 3,5 miliardi di dollari. Traumi da cui sarà faticosissimo riprendersi, economicamente e soprattutto emotivamente, perché tempeste come queste trasformano irrimediabilmente l’aspetto dei luoghi: distruggono abitazioni, spostano confini, ridisegnano la morfologia del territorio, riscrivono la memoria dei luoghi.

830mila morti

Secondo gli scienziati, negli ultimi due decenni la frequenza dei super tifoni che hanno colpito le Filippine è aumentata di oltre il 100% e del resto le Filippine occupano il settimo posto nella classifica dei paesi che in questi ultimi trent’anni sono stati più duramente colpiti da eventi climatici. È ciò che risulta dal Climate Risk Index, presentato mercoledì 12 novembre a Belém.

L’indice, elaborato dall’organizzazione umanitaria e ambientale Germanwatch, analizza dati storici e accessibili su 9.700 tra i più gravi eventi climatici tra il 1995 e il 2024, per valutare il livello di rischio e l’esposizione dei singoli Paesi agli impatti del riscaldamento globale. È un lasso di tempo simbolicamente significativo: il 1995 è l’anno della prima Cop, a Berlino, e da allora le emissioni di gas serra da attività umane hanno superato quelle fatte registrare nei precedenti cento anni.

In questi trent’anni di conferenze per il clima, il cambiamento climatico ha causato più di 830.000 morti, e danni economici per 4,5 trilioni di dollari a livello globale, fra ondate di calore, tempeste e alluvioni. Circa il 40% della popolazione mondiale, ossia più di tre miliardi di persone, vive negli 11 Paesi più duramente colpiti. Fra questi ci sono la Libia, Haiti, l’India, la Cina e, appunto, le Filippine.

La classifica del rischio

Molti di questi Paesi affrontano disastri climatici con tale frequenza e intensità che intere regioni faticano a riprendersi prima del successivo evento. Lo sappiamo anche noi, o almeno lo sa bene l’Emilia Romagna che nel maggio 2023 era stata travolta da due volte nel giro di due settimane da alluvioni, con 44 comuni colpiti, 23 fiumi esondati, centinaia di frane, per poi essere colpita nuovamente nell’autunno del 2024. Il Climate Risk Index colloca l’Italia al sedicesimo posto della classifica. Fra i paesi del nord globale troviamo la Francia al dodicesimo, gli Stati Uniti al diciottesimo.

Il triste podio del cambiamento climatico se lo aggiudicano però la Dominica, una piccola isola dei Caraibi orientali, e il Myanmar. In Dominica, nel 2017, l’uragano Maria ha causato danni per 1,8 miliardi di dollari, quasi tre volte il Pil del Paese, mentre il ciclone Nargis in Myanmar nel 2008 ha ucciso quasi 140.000 persone e causato danni per 5,8 miliardi di dollari.

Per David Eckstein, senior Policy Advisor presso Germanwatch e co-autore dell’indice, i risultati del rapporto «dimostrano chiaramente che la Cop30 deve trovare modi efficaci per colmare il divario di ambizione globale. Le emissioni globali devono essere ridotte immediatamente, altrimenti si rischia un aumento del numero di morti e un disastro economico in tutto il mondo. Allo stesso tempo, gli sforzi di adattamento devono essere accelerati. È necessario implementare soluzioni efficaci per le perdite e i danni e fornire finanziamenti adeguati per il clima».

In apertura della Cop30, il Climate Risk Index richiama i Paesi del Nord globale a una sempre più urgente presa di responsabilità. Responsabilità che si traduce da una parte nell’impegno a trovare una strategia chiara per abbandonare i combustibili fossili, e dall’altro nel dovere di garantire ai paesi del Sud Globale i finanziamenti necessari ad affrontare la transizione e l’adattamento, proprio mentre tifoni e uragani presentano il conto.

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