Settantamila persone al giorno, per dieci anni. È questo il ritmo con cui gli eventi climatici estremi stanno costringendo milioni di individui a lasciare le proprie case. Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), si tratta di una crisi globale che conta 250 milioni di sfollati climatici in un decennio e che resta in gran parte ignorata nei piani di chi dovrebbe prevenirla.

Nei giorni della Cop30 – la trentesima conferenza delle Nazioni Unite sul clima – le parole del segretario generale dell’Onu António Guterres risuonano inequivocabili: «Il mancato rispetto del limite di 1,5°C è un fallimento morale». E, nonostante le conferenze sul clima siano riuscite a evitare un innalzamento drammatico della temperatura media globale (secondo l’Emission Gap report 2025 senza l’Accordo di Parigi, alla fine del secolo il termometro segnerebbe +3,8°C rispetto all’era preindustriale, mentre oggi siamo su una traiettoria di circa +2,5°C), fuori dai tavoli negoziali la crisi climatica – sotto forma di eventi estremi, graduali o violenti che siano – provoca già perdite e danni tangibili.

Di uragano in uragano

L’uragano Melissa, reso due volte più probabile dal riscaldamento globale, ha devastato la Giamaica provocando almeno 75 morti e danni stimati pari a un terzo del Pil nazionale. Dall’altra parte del mondo, il tifone Kalmaegi che ha colpito Filippine e Vietnam ha ucciso quasi 200 persone. Chi sopravvive resta senza casa, lavoro, affetti, ed è spesso costretto a spostarsi: a volte di pochi chilometri, altre volte nello Stato vicino, nei casi più difficili in un altro continente, con tutti i problemi legati al mancato riconoscimento giuridico dello status di rifugiato climatico.

Un aspetto che rende difficile questo inquadramento legale – oltre al fatto che manca la volontà politica di accogliere persone in movimento – è che dietro ogni migrazione climatica c’è un intreccio di crisi che si alimentano a vicenda: scarsità di acqua e di cibo, erosione dei suoli, perdita di ecosistemi, conflitti per le risorse, instabilità economica, politica e sociale. Oggi tre quarti dei rifugiati e degli sfollati si trovano in Paesi ad alto rischio climatico e quasi la metà vive in Stati fragili come Sudan, Siria, Haiti, Congo, Libano, Myanmar e Yemen, che hanno contribuito e contribuiscono in misura minima alle emissioni globali di gas serra.

Moltiplicare le disuguaglianze

L’Unhcr definisce la crisi climatica un moltiplicatore di rischi, capace di amplificare disuguaglianze preesistenti e destabilizzare intere regioni. Alcuni esempi: nel maggio 2024, in Brasile, le inondazioni record nello stato del Rio Grande do Sul hanno ucciso 181 persone e costretto oltre mezzo milione di abitanti ad abbandonare le loro case e tra loro c’erano 43mila rifugiati provenienti da Venezuela, Haiti e Cuba. Nel 2023, il ciclone Mocha ha devastato la zona del Myanmar abitata dai Rohingya, minoranza etnica musulmana che nell’ex Birmania vive in condizioni di segregazione in campi sovraffollati. «La capanna era il nostro rifugio, la barca e le reti ci permettevano di pescare. Per me è straziante perdere tutto», ha raccontato una donna Rohingya ai ricercatori dell’Onu.

A più di un anno dall’istituzione del Fondo “perdite e danni” – pensato per risarcire i Paesi più vulnerabili dai danni degli eventi climatici estremi – le risorse restano bloccate. Dalla Cop30 ci si attende che il fondo venga finalmente reso operativo e integrato con la finanza necessaria all’adattamento. Tra il 2000 e il 2019, il cambiamento climatico è già costato ai Paesi più vulnerabili circa 525 miliardi di dollari.

-19% di reddito globale

A livello globale, entro il 2050, i danni potrebbero oscillare ogni anno tra 19 e 59 mila miliardi di dollari, mentre l’economia mondiale è già destinata a perdere circa il 19% del reddito entro la metà del secolo, indipendentemente dall’efficacia delle politiche di mitigazione attuali. D’altra parte, ogni dollaro investito nell’adattamento può generare un ritorno pari a dieci volte la spesa, grazie alle perdite evitate e ai benefici economici, sociali e ambientali che ne derivano.

Nel suo discorso d’apertura alla Cop30, Simon Stiell, segretario esecutivo dell’Unfccc (organismo dell’Onu che coordina le conferenze e l’attuazione degli accordi sul clima), ha affermato: «Litigare mentre le carestie avanzano, costringendo milioni di persone a fuggire dalle loro terre, non sarà mai perdonato». Ha poi ricordato che le temperature globali hanno superato anche quest’anno la soglia di 1,5°C e che i disastri climatici stanno sottraendo punti al Pil dei Paesi più vulnerabili. «Esitare mentre gli eventi di siccità distruggono i raccolti e fanno impennare i prezzi alimentari non ha alcun senso, né economico né politico», ha aggiunto.

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