Mazze da baseball (e da cricket), arco e frecce, baionette, pistole da starter, cacciaviti (se lunghi più di 15 centimetri), nunchaks (come quelli di Bruce Lee), dinamite, candele, boomerang e catapulte. Sono alcuni degli oggetti esplicitamente proibiti dalla presidenza di Cop28, che deve aver tarato i propri standard di sicurezza sulla rivoluzione francese, un film di arti marziali e le Tartarughe Ninja. È solo un bizzarro documento burocratico, ma dentro leggiamo che sono vietati anche cartelli, sciarpe o bandiere che possano essere considerati offensivi per paesi, organizzazioni o persone.

La sicurezza dentro la Cop è gestita dalle Nazioni unite, ma i controlli all'ingresso sono del paese ospitante. Quali cartelli entreranno, quali no, ci porta al discorso più importante: che spazio avrà la società civile alla Cop di Dubai. Prima dell'evento di Sharm el-Sheik dello scorso anno il ruolo di proteste e manifestazioni era stato oggetto di una lunga conversazione pubblica. Un anno dopo invece è di fatto assente anche il dibattito sul dibattito. È come se la società civile, i movimenti e le organizzazioni avessero abbandonato l'idea di una Cop partecipata dall'esterno come è stato fino a Glasgow.

Negli Emirati le proteste sono vietate, il segretario di Unfcc Simon Stiell ad agosto aveva detto: «Ci saranno spazi per gli attivisti per riunirsi pacificamente e far sentire la propria voce» ma, come ha scritto Human Rights Watch, «non è chiaro come potranno farlo in sicurezza e in modo politicamente significativo in un paese come gli Emirati, dove gli spazi civici sono chiusi, ci sono severe restrizioni alla libertà di espressione e il dissenso pacifico viene criminalizzato». Negli ultimi dieci anni, almeno 60 fra attivisti e dissidenti sono stati incarcerati. Non sono i 60mila dell'Egitto, ma è comunque qualcosa di cui preoccuparsi legittimamente. Questo è il numero 146 di Areale, cominciamo, cominciamo.

Cop28, aspettative, prospettive, delusioni preventive

EPA

Cosa è legittimo aspettarsi dalla Cop28 che parte il 30 novembre a Dubai? Una conferenza dell'Onu non ha il potere di far avvEnire la transizione, ma ha il compito di non ostacolarla e di creare le condizioni politiche perché abbia luogo. Non produce leggi e norme, ma patti e «compiti a casa». I paesi non eseguiranno la decarbonizzazione per senso del dovere ma dell'opportunità, cioè se avranno la sensazione che a questo punto gli conviene farlo. La Cop serve a produrre questa «sensazione», è quello che in fondo chiamiamo «sforzo diplomatico».

Il patto più importante che può uscire da Cop28 è un accordo su un'eliminazione graduale dei combustibili fossili, la principale causa del collasso climatico. In termini tecnici si dice: «phase-out». È la richiesta dell'Unione Europea (con la clausola di salvaguardia sulle tecnologie di cattura della CO2) e di una serie di altri paesi particolarmente sensibili (come gli arcipelaghi del Pacifico). Se il 12 dicembre, a fine Cop28, avessimo questa parola nel testo finale avremmo risolto il problema della crisi climatica? No, certo che no. Il giorno dopo Eni non straccerebbe il suo accordo col Qatar di acquisto di gas fino al 2053, nessun funzionario cinese andrebbe a spegnere la sua centrale a carbone di riferimento e così via.

Però la notizia di un patto stretto di fronte all'opinione pubblica del mondo per l'eliminazione dei combustibili arriverebbe sulle scrivanie di amministratori delegati, funzionari cinesi, leader democratici e autocrati, creando un segnale e una pressione che andrebbero a frenare lo sviluppo di gas, carbone e petrolio, oggi incompatibile con gli obiettivi climatici. Non ci sono bottoni da premere per fermare il disastro, purtroppo.

Purtroppo sarà difficile veder accadere un patto sul phase-out. Non impossibile, ma difficile. È come dover vincere fuori casa, contro un arbitro casalingo. Gli Emirati, che ospitano la Cop, sono un paese che vive di petrolio e gas. Saranno loro la guida del negoziato, Al Jaber è sia il presidente della Cop (quindi capo diplomatico, arbitro della partita) che Ceo di Adnoc, azienda petrolifera di stato (quindi giocatore della partita). È un conflitto di interessi problematico: lo si può denunciare ma tocca anche conviverci, perché il mondo è questo. Inoltre, è difficile che accada un accordo globale anti fonti fossili perché, finora, c'erano volute 26 Cop anche solo per menzionarle nel testo finale di un incontro sul clima. Perfino l’accordo di Parigi ha visto la luce perché parlava del problema (le temperature) e delle soluzioni ma non delle cause. Se non avremo il patto sul phase-out, al Jaber può essere considerato un sintomo del problema, non il responsabile in sé.

Ci sono altri obiettivi. Un patto per triplicare lo sviluppo delle rinnovabili è un obiettivo negoziale ufficiale dell'Ue ed è stato inserito nel dialogo congiunto tra Usa e Cina seguito all'incontro tra Biden e Xi. Gli Emirati sono invischiati nel petrolio e nel gas ma investono anche in eolico e solare, e qui c'è la sede di Irena, l'Agenzia internazionale sulle rinnovabili. Insomma, questo patto ci sarà, sarà sicuramente la Cop delle rinnovabili.

La vera domanda però è: qual è il rapporto tra rinnovabili e fossili? Finora abbiamo aggiunto le prime al sistema senza ridurre fonti fossili, sommando energia invece che sostituendola, senza intaccare il problema climatico. È una delle grandi questioni di questa Cop, che sarà una battaglia al cuore stesso della transizione. La posizione degli Emirati, delle aziende e di chi a vario titolo difende lo status quo è: aggiungere rinnovabili al sistema in modo che quando i combustibili fossili avranno smesso di essere utili o dare profitti si eclissino da soli.

Smettere con i combustibili fossili parallelamente all'aumento delle rinnovabili è invece la richiesta della scienza, della società civile e dei paesi più sintonizzati sulla crisi climatica. Per un saudita, la prima soluzione è ragionevole realismo. Per un maldiviano, è una condanna a morte, oblio e sparizione della sua terra. Le Cop sono importanti anche perché creano uno spazio per questa conversazione. Chi vincerà, lo sapremo il 12 dicembre.

In un contesto normale, avremmo la pressione della società civile a spingere la Cop verso un finale positivo. In questo contesto, la società civile internazionale è distratta da altre questioni, come l'assedio di Gaza. Quella locale è criminalizzata e sarà quasi del tutto assente. A creare pressione c'è solo il muro di dati costruito dalla comunità scientifica nel mese di novembre, in vista della Cop, su quanto è grave la situazione. Gli ultimi in ordine di tempo sono stati quelli dell'Organizzazione meteorologica mondiale: la concentrazione di CO2 in atmosfera è ai livelli massimi da tre milioni di anni e continua a crescere, anno dopo anno. Da giugno a ottobre, ogni mese è stato il più caldo mai registrato a livello globale.

Crisi climatica e paura nucleare

EPA

Siamo in continua ricerca di pensiero nuovo. Abbiamo i dati, tanti dati, forse abbiamo più dati di quanto sia sano averne, e abbiamo la consapevolezza, ma ci servono anche le idee per collegare tutto. Le idee intelligenti sono come i fili per il bucato, servono a far asciugare le informazioni, a renderle utilizzabili. Idee utili come fili per il bucato sono quelle dello psichiatra statunitense Robert Jay Lifton. (Qui una sua bella intervista al New Yorker). Lifton ha studiato il trauma e il senso pubblico e privato del dolore su vasta scala: la Shoah, Hiroshima, il terrorismo, il terrore nucleare.

Nel suo libro Death in Life scrive: «Siamo tutti dei sopravvissuti di Hiroshima e, nelle nostre immaginazioni, di tutti i futuri olocausti nucleari». E, aggiungo, di tutti i futuri olocausti non nucleari. La bomba di Hiroshima è dappertutto, il racconto su Los Alamos è dappertutto, il progetto Manhattan è dappertutto, viviamo in una nuova ossessione nucleare, libri, film, serie Tv.
Perché?
Perché la Russia da due anni fa paura come ne faceva l'Urss?
Forse.
Ma secondo me la bomba atomica di Nolan, Labatut, McCarthy, Giordano e tutti gli altri è anche il filo del bucato dove stendere l'indicibile climatico.

Anche Lifton dice qualcosa del genere. «Nella nostra mente gli eventi apocalittici si fondono. Vedo tanti paralleli tra la minaccia nucleare e la minaccia climatica. Le persone parlano della paura nucleare e della paura climatica con lo stesso lessico. È come se la nostra mente avesse una certa area che si occupa solo di eventi apocalittici». I nostri neuroni apocalisse parlano del clima secondo l'educazione che hanno ricevuto e la nostra educazione alla fine del mondo è stata tutta plasmata tra il 1946 e il picco della Guerra Fredda. Le bombe atomiche. In fondo spesso misuriamo anche le stesse emissioni in termini di: quante bombe atomiche equivalenti?

Questo sappiamo di come ci possiamo estinguere come specie e in base a questo stiamo reagendo. È utile? È il modo migliore? Non lo so, ma per Lifton il nostro status come umanità è di Hiroshima survivor. La domanda che lui pone è: cosa può innescare la ricerca di uno species-wide agreement, un accordo come specie a non distruggerci tra di noi? Con le bombe atomiche ci siamo, finora, riusciti. La mia sensazione è che sia difficile applicare il pensiero della non proliferazione e della massima mutua distruzione alla crisi climatica. Il clima si presta male alla teoria dei giochi, e la Cop lo dimostra. Si decide poco, male e piano.

Le istituzioni che abbiamo costruito per salvarci dalla minaccia atomica sembrano impotenti contro la minaccia climatica. Inoltre, oggi non possono impedire di bombardare un ospedale con le incubatrici dentro, come potranno evitare di costruire una nuova centrale a carbone?

Un sopravvissuto, però, non è semplicemente una vittima, scrive Lifton. Un sopravvissuto è un «agente di cambiamento». Questa dell'eco-ansia e dei disastri climatici sta diventando una società post-traumatica di massa, Terra di sopravvissuti. «I sopravvissuti alle catastrofi sono persone speciali. Hanno sviluppato dubbi sulla continuazione della razza umana». Da quei dubbi possiamo ripartire, dal non dare più niente per scontato. Hanno dovuto metterla in discussione perché sono stati costretti, quando hanno visto la bomba esplodere o l'acqua salire. Siamo nella società del trauma, il trauma climatico potrebbe essere una delle scintille di un pensiero nuovo. Non solo testimonianza, ma anche elaborazione. Un modo nuovo per stare nel mondo.

Slow boat coming: diario di un viaggio lunghissimo

C'è un nuovo frammento del diario sulla lunga avventura di Gianluca Grimalda, il ricercatore che sta viaggiando da Papua Nuova Guinea all'Europa via terra e mare per non prendere l'aereo. Tutti i dettagli nelle edizioni precedenti di Areale. (Editori, lo facciamo scrivere un libro a Gianluca?)

«Una delle prime cose di cui ti parlano all’arrivo in Papua è il Papua New Guinea (PNG) Time. Non è il fuso orario, ma l’abitudine a che qualsiasi cosa possa richiedere un minuto, un’ora, un giorno, un mese, un anno, o per sempre, prima che venga compiuta. Questa volta il PNG time gioca a mio favore. Il capo ufficio migrazione mi chiama verso mezzogiorno del giorno successivo al tentativo di superare il confine, e mi dice che c’è il benestare da parte delle comunità locali al mio passaggio.

I proprietari terrieri locali stanno facendo il bello e il cattivo tempo con chi voglia entrare in Indonesia da settimane. Anche una Coppia di canadesi passa con me. Dove e Seraphine stanno viaggiando da due anni per le isole polinesiane, senza prendere aerei ma aspettando che qualche proprietario di barca offra loro un passaggio. Hanno deciso di uscire dal circuito lavoro-consumo e per questo vivono insieme alle comunità indigene di villaggio in villaggio ed apprendendo l’artigianato locale.

Per me che ho lavorato solo a Bougainville, la diversità culturale che si apre nei loro racconti è enorme. Grazie ad un tassista indonesiano che parla Tok Pidgin (la lingua nazionale papuana, una sorta di inglese creolizzato), riusciamo a comprare biglietti per la nave che parte il giorno successivo.

È una sorta di transiberiana dei mari di Giava. Sei giorni di viaggio per raggiungere Giacarta, dopo 4300km. Ho un biglietto di terza classe, la classe che prediligo per poter viaggiare con le persone comuni. Si dorme in stanzoni di un centinaio di persone, uomini, donne e bambini in file di letti senza separazione l’uno dall’altro. La privacy è nulla, specie per chi, come me, è una mosca bianca nel vero senso della parola. Tutti mi chiamano Mister e fanno in quattro per aiutare me ed i canadesi (prima che scendano a Sorong). Ancora non capisco cosa abbiamo fatto da occidentali per meritarci questo rispetto.

Dubito che farebbero altrettanto con turisti di altre zone. Non è decisamente una nave da crociera. L’usanza è gettare i rifiuti per terra, gli uomini fumano in continuazione, ed il canto del muezzin delle 5 del mattino continua a svegliarmi e lasciarmi in stato di dormiveglia poco riposante per le ore successive. SCopro che oltre alla mia terza classe c’è anche una quarta classe situata al livello ancora più in basso, ed anche una quinta fatta di persone che non hanno né biglietto né letto. Dormono su materassi o per terra nei sottoscala, come fossero senzatetto che vivono sotto i ponti.

Passo molte ore nel ponte più in alto, dove riesco a lavorare anche grazie alla musica di Giava ripetuta a nastro. Cerco sempre di avere qualche scambio con i compagni passeggeri, reso possibile dal traduttore automatico che funziona senza rete. Mostro loro le immagini della mia casa di Kiel, della mia musica al piano, del mio ex-ufficio. Devo sembrare loro una star di Hollywood. Alcuni mi chiedono timidamente foto, altri fanno ironia sulle mie abitudini. Li sento nominare il Mister e poi ridere fragorosamente.

Spiego a tutti le ragioni del mio viaggio. Praticamente tutti ignorano che viaggiare in aereo produce una quantità enorme di emissioni. Capisco che apprezzano i motivi del mio gesto. Mi diverte scherzare con loro. Un argomento di ironia costante è il mio essere scapolo. Amo dire che ho sposato la scienza. Al che mi offrono in moglie sorelle e cugine, senza far mai mancare il pagamento di una dote nemmeno troppo esosa. Bambang è un “big man” della parte occidentale di Timor. Viene definito dagli altri passeggeri un gangster, e lui non smentisce.

Ti guarda negli occhi come per incutere timore, e poi ti offre del caffè con molto zucchero. Qualche altro passeggero mi fa segno che mi taglierà la gola. Penso che al disimbarco mi farò proteggere dai facchini che si avventeranno sui miei voluminosi bagagli. I miei piani naufragano di fronte al mio capriccio di Copiare musiche di Giava sul telefonino proprio prima dell’arrivo. Quando scendo nella mia sala, i miei bagagli sono completamente incustoditi, ma Bambang è lì a sorvegliarli. Si carica la valigia più pesante ridendo sotto i baffi.

Dopo cinque giorni di viaggio decido che ne ho abbastanza di ponti di nave e decido di sbarcare a Surabaya, non appena toccata l’isola di Giava. Tornare nel mondo motorizzato mi crea insofferenza, così come l’aria condizionata tenuta a 18° sul treno che mi porta a Yogyakarta. Dopo 13 giorni di viaggio quasi ininterrotto, ho la mia prima doccia degna di tale nome. SCopro che c’è un solo traghetto diretto a Singapore per settimana, partirà venerdì prossimo. Mi ritrovo ancora una volta ad aspettare. Il mio corpo affaticato non protesta. Ma sa già che, dopo qualche giorno di pausa, punteremo su Sumatra sulla strada per Singapore».

Per questa settimana è tutto! La prossima ci vediamo a Roma? C'è il festival di Domani, L'Europa di Domani, 23 e 24 novembre, alla Camera di Commercio di Roma. Pieno di giornaliste e giornalisti, di temi, di storie, di interventi, qui c'è tutto il programma, il 24 novembre alle 17 ci sono anche io, dialogo con Gianfranco Pellegrino e Annalisa Corrado, passa a salutarci. Per rimanere in contatto, come sempre, ci sono Instagram, Twitter/X, Blue Sky, la chat Telegram e la mia mail: ferdinando.cotugno@gmail.com, oppure quella di Domani, lettori@editorialedomani.it

Buon sabato!

Ferdinando

© Riproduzione riservata