Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questa è Areale, una newsletter settimanale sul clima, a cui tocca raccontare una settimana complicata, rossa, caldissima. (Iscriviti qui, è gratis).

Questa settimana è stata davvero una parabola sulla crisi climatica. Dopo mesi di politica e politiche, con la conversazione dominata dalle trattative diplomatiche e dalla lentezza nell’affrontare la transizione ecologica, è stata la Terra a parlare, a restituirci la scala del problema. L’epicentro è un villaggio canadese che ormai non esiste più: Lytton, in British Columbia, Canada, che ha toccato temperature mai registrate per tre giorni di fila, fino al picco di 49,6°C, e poi è stato divorato dalle fiamme.

L’innesco degli incendi potrebbe essere stato casuale, forse addirittura il passaggio di un treno, ma non sono casuali le condizioni che lo hanno reso distruttivo: foreste secche e in stress idrico e un caldo che non erano pronte a reggere. Il fuoco ha mangiato il 90 per cento degli edifici, «Lytton è persa», è andata, ha scritto Edith Loring-Kuhanga, preside di una scuola nella valle, che ha fatto giusto in tempo a fare le valigie e scappare. Una comunità spazzata via dal cambiamento climatico in meno di un’ora. Dall’Italia dobbiamo fare attenzione alla storia di Lytton, non possiamo considerarla un fatto remoto, né per la situazione temperature né per quella incendi.

A motorist watches from a pullout on the Trans-Canada Highway as a wildfire burns on the side of a mountain in Lytton, B.C., Thursday, July 1, 2021. (Darryl Dyck/The Canadian Press via AP)

L’incendio ha distrutto Lytton, ma sono state le temperature a uccidere le persone. In British Columbia in meno di una settimana sono morti improvvisamente per infarti e colpi di calore in 486, il 200 per cento in più del normale tasso di mortalità. Il capo coroner ha avvisato: «Man mano che aggiorniamo i database, questi numeri cresceranno». La regione non era pronta a niente del genere, sono stati approntati dei rifugi per sfuggire al caldo.

Un anno fa, uno studio del Climate Impact Lab annunciava scenari di questo tipo: le morti da caldo entro il secolo potrebbero superare quelle da malattie infettive, le ondate di calore sono la più mortale forma di meteo estremo sulla Terra e i numeri finiscono con l’essere sottostimati, perché sono più difficili da raccogliere rispetto a quelli causati da un uragano o una inondazione. Secondo i dati di questa ricerca, le ondate di calore faranno 73 morti su 100mila persone entro il 2100, con picchi in paesi vulnerabili di 200 morti su 100mila. Secondo l’Oms, tra il 1998 e il 2017 sono stati 166mila i decessi attribuibili a temperature anomale.

L’ondata che ha colpito il nord-ovest Pacifico è dovuta a una heat dome, una spaventosa cupola di calore. «Le temperature hanno raggiunto valori aberranti», conferma Giulio Betti, meteorologo e climatologo CNR/Lamma. «Sono valori più alti fino a 5°,6°C rispetto alla norma, sfuggono completamente alle statistiche. Non solo Lytton, abbiamo superato 40 gradi al 60° parallelo nord, in Alberta, nei territori del nordovest. Il cambiamento climatico è questo». La cupola sul Canada è un fronte di aria calda dal Pacifico, che ha viaggiato verso est e poi a nord, dove è rimasto bloccato, alimentato per giorni dall’elevata temperatura delle superfici. Non è la prima heat dome, a essere fuori scala sono però i picchi di calore e la sua durata.

Pensabile in Italia? Le dinamiche sono diverse, Lytton ha superato ogni nostro record (i 47°C di Foggia del 2007), ma quella che stiamo vivendo è già una stagione con temperature che Betti definisce «eccezionali: è cominciata col botto soprattutto a sud, con i 44°C di Caltagirone e Comiso. È un’estate nei canoni di queste nuove estati». È difficile prevedere l’impensabile, come era impossibile immaginare un Canada a quasi 50°C, «ma più si riscalda la Terra più aumenta la probabilità di temperature mai osservate, non siamo indenni all’impensabile».

In Canada l’altra faccia dell’apocalisse sono gli incendi come quello che ha distrutto Lytton, Come avevamo visto in California l’anno scorso, questi roghi sono talmente fuori scala da generare un proprio meteo: sul British Columbia sono stati registrati oltre 700mila fulmini, il 5 per cento di quelli che ci sono in un anno. Incendi di queste proporzioni sono un sistema che si autoalimenta, creando pirocumulonembi, fronti temporaleschi fatti di fumo, cenere e vapore acqueo. Gli effetti, fulmini compresi, sono come quelli di un’eruzione vulcanica.

In Italia quest’anno siamo avvantaggiati da una primavera fresca e umida, che ci ha lasciato una riserva idrica in grado di mitigare il calore. Ma il territorio rimane critico e pericoloso, una tempesta perfetta in attesa di scatenarsi. Come spiega Davide Ascoli, ricercatore dell’Università di Torino, uno dei massimi esperti di incendi in Italia, «Abbiamo una situazione climatica che porta verso gli estremi, un aumento della superficie dei boschi, quindi di biomassa predisposta a bruciare, e una elevata pressione antropica, quindi grandi possibilità di innesco».

Nelle estati normali la situazione rimane gestibile, in quelle critiche la siccità rende il paesaggio omogeneo e infiammabile. È lo scenario peggiore, quello che all’inizio di ogni stagione possiamo solo pregare che non accada. «Quando gli incendi hanno tutto quello spazio a disposizione, la scala supera le possibilità dell’anti-incendio», spiega Ascoli, «C’è una dimensione critica oltre la quale puoi aggiungere mille uomini ma non cambierà niente». È successo nei due roghi peggiori a nostra memoria, quelli del 2017 in Val di Susa e nel Parco del Vesuvio. «In Val di Susa c’ero, dai 400 ai 2.000 metri di altitudine il fuoco era indomabile, è entrato in tutti i valloni abbandonati, i Canadair erano impotenti, piccoli puntini contro la forza del fuoco. Puoi solo sperare che si spenga da solo». In un paese dove la copertura boschiva è raddoppiata e arriva fino ai centri abitati, è come vivere accanto a una bomba climatica innescata.

«L’unica strategia possibile è lavorare sul territorio per ridurne l’infiammabilità, pianificando, gestendo, non lasciando interventi al caso, perché gli incendi record torneranno, dobbiamo solo chiederci se ci interessa la sicurezza degli italiani tra trent’anni. Next Generation è anche questo, no?». Parlando del nord-ovest Pacifico, il climatologo Andrew Dessler ha paragonato il nostro rapporto col riscaldamento globale al tirare un dado all’inizio di ogni estate. Le situazioni estreme dipendono sempre dal caso, dalle probabilità, dalle circostanze. Il problema è che, come spiega Dessler, «abbiamo riempito quel dato di 6, la probabilità che escano catastrofi diventa ogni anno più alta».

La lenta uscita dal carbone

In questo scenario, se pensiamo alla lentezza nell’azione climatica per contrastare tutto questo, ogni piccola buona notizia nella transizione ecologica ed energetica conta, e facciamole contare. Generali, per esempio, ha pubblicato la Strategia del gruppo sul cambiamento climatico, annunciando la chiusura di ogni copertura assicurativa per le società carbonifere e i loro asset, cioè miniere e centrali a carbone: nel 2030 nei paesi Ocse e nel 2038 nel resto del mondo, in linea con quanto richiesto dalla comunità scientifica. È una vittoria per organizzazioni come Greenpeace e Re:Common, che lo chiedevano da anni.

Togliere copertura assicurativa e finanziaria alle attività più climalteranti è un passaggio decisivo per opporsi ai rallentamenti esasperanti di paesi che, anche nell’Unione europea (Polonia, Repubblica Ceca), fanno fatica a immaginare un futuro senza carbone. Inoltre il Bangladesh, uno dei paesi più colpiti dalla crisi climatica, ha annunciato di aver cancellato dieci progetti di nuove centrali a carbone, per concentrarsi sulle rinnovabili. C’è però ancora un progetto molto pericoloso in piedi, una centrale vicino Sundarbans, la più grande foresta di mangrovie del mondo, casa della tigre del Bengala.

La corsa degli elefanti cinesi

Mentre Xi Jinping celebrava il centesimo anniversario del Partito comunista cinese dicendo «chi ci ostacola si romperà la testa», il paese continua ad affrontare una sfida imprevista: quella di quindici elefanti in viaggio da un anno nella provincia dello Yunnan. Destinazione: ignota. L’avventura, probabilmente causata dalla perdita di habitat a sud, per i cinesi è diventata un reality show ecologico permanente, pieno di sottotrame, come l’adulto che si è allontanato senza motivo, o le nascite di cuccioli lungo la strada.

Da giorni gli elefanti vagano intorno alla città di Kunming, dove, ricordiamo, a ottobre si terrà il più importante vertice globale sulla biodiversità. Gli elefanti hanno generato curiosità, ma anche allarme, si sono affacciati nelle cucine delle case e in una dimora per anziani, alcuni si sono «ubriacati» col grano fermentato. Comunque vada, c’è materiale per un film Disney o una saga Netflix. Ma il punto è: come andrà?

L’obiettivo nel breve termine è ridurre le interazioni con gli esseri umani, pericolose per le persone e per gli elefanti. La risposta sul campo si sta adattando in tempo reale, con esche di cibo e barriere fisiche che vengono continuamente messe e spostate. Il cibo in teoria viene usato per indirizzare il viaggio, ma nessuno a questo punto è in grado di dire verso quale destinazione, e intanto bisogna evitare il rischio che gli elefanti diventino troppo dipendenti dal cibo umano. Riportarli nella foresta Xishuangbanna pone una sfida pratica alla quale nessuno è pronto in Cina, non su questa scala.

C’è anche l’idea di creare una nuova area protetta lì dove si sono fermati, a 15 chilometri da Kunming, il potenziale ecologico ci sarebbe, ma anche in questo caso c’è la complessità di creare un parco degli elefanti (elefanti ormai famosi, peraltro) vicinissimo a una città di quasi sette milioni di abitanti. In ogni caso questa storia nata per caso sta diventando uno studio globale sull’interazione tra l’areale animale e quello umano, con esiti che non scopriremo a breve ma che saranno in ogni caso molto istruttivi, soprattutto in un contesto di sviluppo aggressivo come in Cina.

Gli orsi polari e Venezia

Areale è un concetto spaziale e in Artico sta finendo lo spazio per gli orsi polari, perché sta finendo il ghiaccio. Il mare di Wandel, tra Groenlandia e isole Svalbard, è considerato uno degli ultimi luoghi in Artico dove il ghiaccio è abbastanza stabile anche d’estate da permettere agli orsi di spostarsi e soprattutto di cacciare, quindi di nutrirsi, perché è un ultimo rifugio non solo per loro, ma anche per foche e trichechi. Il problema è che anche qui le dinamiche dei riscaldamento globale hanno iniziato a intaccare la copertura estiva di ghiaccio marino, come appurato dai dati di una ricerca appena pubblicata su Nature, frutto di una spedizione della quale avevamo già parlato qui su Areale, quella della Polarstern, il più importante progetto di ricerca artica sul clima fatto negli ultimi decenni.

La combinazione di dati raccolti sul campo e immagini satellitari ha mostrato come ad agosto 2020 il livello del ghiaccio fosse al 50 per cento, un minimo storico per l’area e un fatto che ha un impatto diretto e immediato sulla fauna artica (oltre che su moltissimi altre cose, decisamente più a sud).

E non è solo un problema di orsi polari: il 30 giugno è uscito un rapporto Snpa (Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente) condotto da Ispra e altri enti sugli indicatori di impatto dei cambiamenti climatici in Italia. I venti indicatori dello studio compongono una fotografia di come il cambiamento climatico stia già colpendo l’Italia, al presente. E la parola che più ha colpito di questa articolata ricerca è «irreversibile», associata all’innalzamento dei mari e a Venezia.

Irreversibile è una parola forte, soprattutto quando viene spesa da un ente di ricerca pubblico. Gli incrementi su scala nazionale sono di 2,2 millimetri all’anno, nell’Adriatico si sale a 3, a Venezia parliamo di 5,34 millimetri all’anno per il fenomeno combinato di innalzamento del livello del mare e abbassamento del livello del terreno. Nel lungo periodo il dato su Venezia era di 2,53 millimetri, è quasi raddoppiato se consideriamo gli ultimi trent’anni.

Tra gli ambienti più delicati raccontati da Snpa ci sono quelli alpini: la deglaciazione è sempre più marcata, i ghiacciai fondono ogni anno di più, «a causa dell’effetto combinato delle elevate temperature estive e della riduzione delle precipitazioni invernali». La perdita di massa è costante, la media annua è oltre un metro di acqua equivalente (lo spessore dello strato di acqua ottenuto dalla fusione del ghiaccio) dal 1995 al 2019. Il ghiacciaio Caresèr, in Trentino Alto Adige, in questo periodo, ha perso 41 metri. E assistiamo anche al degrado del permafrost. I due siti pilota (Valle d’Aosta e Piemonte) evidenziano un riscaldamento medio di 0,15°C ogni dieci anni con un’elevata probabilità di «degradazione completa» entro il 2040. Non benissimo. 

I dati di Polarstern e quelli italiani mostrano la stessa dinamica che si è drammaticamente rivelata a Lytton, il sistema si sta spezzando, la Terra sta scricchiolando, molto rapidamente, e c’è una sola azione che funzionerà, quella altrettanto rapida.

Il fungo alla fine del mondo

Prima di salutarci, vi consiglio un libro. Si intitola Il fungo alla fine del mondo, l’ha scritto l’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing e in Italia lo pubblica Keller. È la storia ecologica e umana delle filiere di uno specifico tipo di funghi, i matsutake, che in Giappone hanno un enorme valore economico e simbolico, sono oggetto di doni, regalie, perfino strumento di corruzione. È impossibile da coltivare e cresce solo in foreste perturbate: in Giappone (dove è sempre più difficile da trovare), in Yunnan (nella terra attraversata dagli elefanti in fuga), in Oregon (dove è passato l’heat dome di questa settimana) e in Finlandia.

Il matsutake è una specie resiliente, si dice sia stata la prima forma di vita apparsa a Hiroshima dopo la bomba, e ha questa capacità di crescere in foreste compromesse dal disboscamento. Il libro è la storia di tante cose, delle comunità di cercatori (soprattutto rifugiati dall’Asia), di come il capitalismo sappia nutrirsi di economie non capitalistiche (come la ricerca spontanea di funghi da centinaia di dollari a libbra), ma anche di un mondo post-ecologico, è una cronaca dal futuro degli ecosistemi, una visione radicale e a tratti anche ottimista della quale in questo momento c’è bisogno. Leggetelo.


Per questa settimana è tutto, è stata intensa per tutti, se avete consigli di lettura, osservazioni, suggerimenti, foto di ghiacciai o critiche, scrivetemi. Per comunicare in modo istituzionale, la mail è lettori@editorialedomani.it. Altrimenti scrivete a me, ferdinando.cotugno@gmail.com.

A presto, idratatevi.

Ferdinando Cotugno

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