Al quarto giorno di lavori, la Cop28 di Dubai è entrata definitivamente in crisi, mostrando i limiti di un processo di decarbonizzazione affidato a un petrostato. La miccia è stato il video di una chiamata Zoom del presidente del vertice, nonché capo dell’azienda petrolifera degli Emirati, Sultan al Jaber.

Nella call del 21 novembre, diffusa ieri, al Jaber sostiene che non c’è nessuna evidenza scientifica dietro la richiesta di rinunciare ai combustibili fossili e che farlo «ci riporterebbe nelle caverne». Una retorica vicina al negazionismo.

Il video è arrivato al Center for Climate Reporting, è stato diffuso dal Guardian e si è abbattuto sulla Cop28 come uno tsunami. Uno degli scienziati del clima più autorevoli, Michael E. Mann, ha chiesto le dimissioni di al Jaber e ha inviato una lettera insieme al vicepresidente dell’Ipcc, Jean-Pascal van Ypersele, per ribadire che «il sistema climatico non fa politica, non gioca con le parole. Capisce solo le emissioni, che dipendono dai combustibili fossili».

L’imbarazzo dell’Onu

È un momento di imbarazzo anche per le Nazioni unite. Tutti i report scientifici Onu confermano che non c’è modo di evitare che l’aumento delle temperature vada fuori controllo senza smettere di estrarre e bruciare petrolio, carbone e gas.

Lo stesso segretario Onu, António Guterres, parla solo di crisi climatica come dei combustibili fossili. Eppure la persona e il paese a cui è stato affidato il negoziato negano la scienza e gli obiettivi della conferenza sul clima. Il video ha reso esplicito quello che era implicito nel conflitto di interessi tra i due ruoli di al Jaber, guida dei negoziati e capo di un’azienda petrolifera.

L’avvio del negoziato

Perché è così grave? Se volessimo riassumere il senso di Cop28, questa infrastruttura politica e umana da 97mila delegati verrà giudicata da questo: se riuscirà o meno a inserire una sola parola, phase-out, “uscita”, riferito ai combustibili fossili, in un documento diplomatico da una decina di pagine.

I capi di stato e di governo sono volati via domenica, qualcuno tornerà a fine vertice per le decisioni finali. Sulla superficie della Cop28 è iniziato il ciclo delle giornate tematiche. Ieri era quella sulla salute.

Sotto la superficie, però, è partito il negoziato su cosa ci sarà nel testo finale: quando la Cop28 sarà stata smantellata e la gente sarà tornata a casa, quel documento è l’unica cosa che conterà davvero, insieme al Global Stocktake, l’inventario delle emissioni. Politica e realtà.

Per la prima volta in questa Cop si sta negoziando concretamente non solo sui sintomi (le temperature), i rimedi (la transizione) o le conseguenze (i danni), ma anche sulle cause del problema.

Se tutti i paesi della Terra concordassero sul phase-out di carbone, petrolio e gas, sarebbe un risultato storico. Ma è un processo delicato e con questo sistema basato sul metodo del consenso basta che un solo paese si opponga per fermare tutto. Sono equilibri fragili, per questo era così contestato il doppio ruolo di al Jaber, e sempre per questo è così grave che siano uscite queste dichiarazioni. È saltata la fiducia.

Emirati e Arabia

Al Jaber non rappresenta solo Adnoc o gli Emirati, ma un vasto blocco di paesi che si riconoscono negli interessi su petrolio e gas. Una delle tracce più interessanti per leggere l’andamento del negoziato è seguire i rapporti tra Emirati e Arabia Saudita.

Sabato i due paesi hanno presentato una proposta di decarbonizzazione del settore che copre solo il 10 per cento delle emissioni, quelle dei processi di estrazione, che non porta al phase-out e non considera quelle prodotte quando petrolio e gas vengono bruciati nelle centrali o come benzina nelle auto.

È come diventare vegani cambiando il grado di cottura della carne ed è da tempo la proposta saudita, che va sotto il nome di carbon circular economy, un’economia circolare delle emissioni. I sauditi sono il primo esportatore di petrolio al mondo, gli Emirati il quinto, ma il loro rapporto va oltre questo.

«La loro dinamica nei negoziati è quella tra poliziotto buono, gli Emirati, e poliziotto cattivo, i sauditi», spiega Mauro Albrizio dell’ufficio europeo di Legambiente, grande conoscitore delle dinamiche delle Cop. Gli Emirati sono, o erano, la faccia presentabile per rappresentare questi interessi. I sauditi quelli che fanno il lavoro duro e sporco di bloccare tutto.

«Nei negoziati per il clima saltano i rapporti consolidati, perché ci sono interessi materiali più forti e urgenti», aggiunge Albrizio.

Alla precedente Cop era stato un triangolo Arabia Saudita, Iran e Russia a impedire qualsiasi avvicinamento alla possibilità di un phase-out.

In questo campo da gioco, i negoziatori dell’Arabia Saudita sono i fuoriclasse, «la nuova élite ricca, preparata e cosmopolita che ha studiato nelle migliori accademie anglosassoni».

È quello che hanno scoperto i promotori dell’Expo di Roma. Contro l’Arabia Saudita non si perde soltanto per le valigette con i soldi, ma per la forza di una classe diplomatica spietata, preparata e capace di difendere gli interessi del regno con ogni mezzo.

Climate Social Science Network ha seguito i negoziatori sauditi per trent’anni di conferenze per il clima. Nel loro dossier, pubblicato il giorno in cui è iniziata Cop28, hanno documentato le tattiche di ostruzionismo che hanno impedito di raggiungere risultati significativi: quando ci chiediamo perché le Cop fanno così fatica a portare dei risultati è anche in questa direzione che dobbiamo guadare.

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