I big del fossile hanno cambiato strategia: non negano più la realtà della crisi climatica, ma preferiscono ridimensionarla. È questa la tesi centrale di The New Climate War, il nuovo libro del climatologo Michael E. Mann. Docente di Scienze dell’Atmosfera all’Università della Pennsylvania e direttore dell’Earth System Science Center presso lo stesso istituto, Mann è un’autorità nel campo del clima. È lui ad aver ideato l’ “hockey stick”, il grafico a mazza da hockey che mostra la brusca impennata delle temperature nell’ultimo secolo.

Già dal titolo, nel suo ultimo libro parla di una nuova guerra del clima. Cosa è cambiato rispetto al passato?

Gli argomenti delle compagnie delle fonti fossili (petrolio e gas, ndr) e dei conservatori. Per anni questi poteri hanno negato l’esistenza stessa del riscaldamento globale pur di legarci il più possibile a petrolio, gas e carbone. Ora le evidenze sono troppe e troppo diffuse, il negazionismo è arrivato al capolinea. Ma al suo posto è arrivato l’inattivismo. È questa la tesi centrale del mio libro.

Negare ormai è diventato controproducente, così hanno dovuto trovare altre tattiche: divisione e deviazione. Vogliono dividere il mondo degli attivisti, e vogliono deviare la nostra attenzione: dall’azione sistemica sulla nostra economia, alle piccole azioni individuali. Intendiamoci, le buone abitudini servono, ma da sole non saranno mai sufficienti. Abbiamo bisogno di politica climatica, azione legislativa, transizione.

“Possiamo risolvere con la geoingegneria; dobbiamo usare il gas naturale; serve essere più resilienti”, questo è il linguaggio degli inattivisti. Ma c’è anche chi arriva a dire che è semplicemente troppo tardi. Le persone con buone intenzioni sono cadute nella disperazione e dobbiamo riportarle sulla strada giusta.

Durante la sua ultima visita in Italia, nel 2018, metteva in guardia dall’opera di disturbo dei negazionisti. Oggi quindi non sono più loro il primo avversario?

La più grande minaccia sono le altre tattiche. La negazione non funziona più, ma le false promesse sì. Ci convincono che la tecnologia sarà la soluzione a tutto. Prendete Bill Gates, che nel suo ultimo libro punta tutto su geoingegneria e cattura del carbonio. Naturalmente alcune di queste soluzioni potranno servirci in futuro, ma ora come ora sono un’illusione. Diventano la scusa per continuare ad emettere senza freni «tanto poi rimedieremo a tutto tra qualche decennio». L'idea che ci sia qualche tecnologia risolutiva che risolverà ogni cosa è pericolosa.

Come vede l’attuale scenario globale? Dal Summit sul clima voluto da Biden sono uscite novità interessanti?

Io penso davvero che potremmo essere vicini ad una svolta.

Dopo quattro anni di assenza gli Stati Uniti sono tornati al centro del dibattito sulla lotta al riscaldamento globale, e anche la Cina sembra essersi svegliata. Se i due grandi inquinatori - Washington e Pechino - fanno sul serio, possiamo sperare in una Cop26 (Conferenza delle Parti sul clima delle Nazioni Unite in programma per novembre N.d.R.) di successo. Abbiamo perso tanti anni, ma non è troppo tardi. È il momento di unirsi.

Chiaramente restano da valutare le azioni concrete, e negli Stati Uniti la volontà dell’esecutivo andrà accompagnata da uno sforzo legislativo. Ma anche paesi storicamente restii a cambiare rotta - penso ad esempio all’Australia - sentono sempre più pressione nel senso della transizione ecologica.

Nulla di tutto questo sarebbe accaduto se non fosse per i giovani scesi in piazza per il clima. Per questo sono cautamente ottimista: è evidente la spinta che viene dai nostri figli. Ci ricordano che la questione climatica non è solo economica, politica, scientifica, ma anche e soprattutto etica.

Gli ultimi anni hanno visto una rinascita dei movimenti per il clima, e anche lei di recente ha detto che «siamo più vicini che mai a sconfiggere il riscaldamento globale». Allora cosa ci manca ancora per vincere questa guerra?

Abbiamo detto che dall’altro lato della barricata stanno usando tattiche sempre più sottili. Deviano il discorso invece di negarlo tout court. Non dobbiamo permetterglielo.

I giovani sono sempre più consapevoli del problema, e non vanno lasciati soli. Chi di noi ha capitale politico o mediatico deve spenderlo per questa causa. Non possiamo cadere in false promesse e false soluzioni - lo ripeto, gas naturale e geoingegneria non saranno i nostri salvatori. Dobbiamo fare tutto il possibile per rimanere concentrati e decarbonizzare la nostra civiltà.

Come si può raggiungere la maggioranza delle persone parlando di clima?

Ci sono persone fondamentalmente irraggiungibili - penso ai trumpiani sfegatati negli Usa - e rischiamo di sprecare tempo ed energie cercando di portarli dalla nostra parte. Non abbiamo bisogno di loro. Chi ci serve davvero sono i confusi, i poco informati, quelli che ancora stanno a metà. Sono persone cadute nella propaganda dell'inattivismo, del «non ho tempo per pensare al riscaldamento globale». C’è un messaggio da ripetere come un mantra: non c’è economia in un pianeta morto.

Parte del lavoro, poi, sta nel voto, nel mantenere alta la pressione sui politici - anche quelli amici. Il movimento giovanile per il clima sta giocando un ruolo importante in questo senso.

E gli scienziati che ruolo devono ritagliarsi? Meglio mettersi semplicemente a disposizione della politica o impegnarsi in prima persona e fare pressione su chi decide?

Io dico sempre che non ho mai iniziato ad occuparmi di politica, è la politica che ha iniziato ad occuparsi di me.

È un privilegio essere nella mia posizione, poter influenzare così tante persone. La nostra scienza ha inevitabilmente implicazioni politiche, ed è giusto esporle. Non siamo solo ricercatori: siamo anche cittadini, padri, frequentatori di chiese. Vogliamo che i nostri figli vivano in un mondo giusto. Dobbiamo parlare del cambiamento climatico in ogni podio che possiamo raggiungere. Poi chiaro, noi possiamo indicare un certo tipo di politica, non le modalità precise o i cavilli.

A novembre ci sarà la Cop26. In cosa dobbiamo sperare?

La crisi climatica è un tema vitale. Lo abbiamo detto a Copenhagen nel 2009, lo abbiamo ripetuto a Parigi nel 2015 (due delle più celebri Conferenze delle Parti N.d.R). Ora è il momento di decarbonizzare, o sarà troppo tardi per evitare i peggiori effetti del riscaldamento globale. Gli impegni presi a Parigi non sono neanche lontanamente sufficienti, e c’è una stretta finestra di opportunità per imboccare la giusta strada.

Ora abbiamo i giovani, l’onda lunga delle piazze. Non dobbiamo sprecarla. E dovremo stare attenti ai dettagli: cosa si intende per net-zero? Quali cavilli useranno gli Stati per non rispettare i loro stessi impegni? Serve rimanere vigili.

Ma lasciatemi essere ottimista, non credo rimarremo delusi. Questo è un “tipping point”, un punto di non ritorno, proprio come quelli di cui parliamo noi climatologi. Solo che stavolta non riguarda la fusione del permafrost o le correnti oceaniche: questo è un tipping point di civiltà.

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